Gli ebrei sono matti

È la storia di Enrico e Ferruccio, compagni di stanza nell’ospedale psichiatrico Villa Turina Amione durante il ventennio fascista. Il pubblico è testimone e protagonista di un non-dialogo che svela tutta l’atroce condizione dell’uomo senza libertà. Al teatro dell'Orologio di Roma fino al 10 febbraio
Gli ebrei sono matti

Due attori seduti uno accanto all’altro, al centro della scena. Le braccia conserte, gli occhi intenti a seguire gli spettatori che piano si accomodano. Si fa silenzio nella sala Gassman del Teatro dell’Orologio a Roma. Le luci si abbassano. Inizia lo spettacolo (foto di Arianna Pioppi).

Siamo in una stanza dell’ospedale psichiatrico Villa Turina Amione. Durante il ventennio fascista l’ospedale, allora diretto dal prof. Carlo Angela, si era trasformato in un rifugio sicuro per numerosi ebrei e dissidenti politici, che vi si nascondevano confondendosi con i degenti. L’attore seduto a sinistra è Enrico (Dario Aggioli), paziente dell’ospedale. L’attore seduto a destra è Ferruccio (Angelo Tantillo) ebreo romano ricoverato nel manicomio di confine sotto finto nome. L’atmosfera è come sospesa; nella sala, spoglia di tutto, l’attenzione è catturata dai micromovimenti che i due attori iniziano sapientemente a costruire. Sono gesti studiati, talmente codificati da apparire naturali, spontanei: la posizione delle mani, l’alzarsi e abbassarsi nervoso delle sopracciglia, gli occhi improvvisamente vitrei.

Enrico è matto, Ferruccio lo deve essere. Deve imparare a memoria tutta quella serie di maniacali atteggiamenti, quel cantilenare della voce, quell’atteggiarsi di Enrico. Deve imparare quell’assurdo ripetersi di slogan fascisti che il compagno di stanza grida a gran voce, portandosi alla ribalta e indossando, di tanto in tanto, maschere a mezzo viso che estrae da una borsa di cuoio. La quarta parete che separa il pubblico dalla stanza dell’ospedale è in realtà un confine molto labile ove si situa la capacità proverbiale del matto Enrico di vedere oltre quello che il savio Ferruccio è incapace di immaginare: noi spettatori siamo la folla che inneggia ai discorsi del Duce, la massa che assiste inerte alla tragedia di un secolo.

Lo spettacolo, che ha ricevuto diversi riconoscimenti – Premio Giovani realtà del teatro 2011,Premio Festival anteprima 89 – edizione 2012, Menzione speciale al premio tuttoteatro.com alle arti sceniche "Dante Cappelletti" 2010 – è stato scritto in memoria del prof. Ferruccio Di Cori, noto psichiatra e scrittore ebreo, emigrato negli Stati Uniti durante la persecuzione nazifascista, ed è ispirato ad una storia realmente accaduta.

Il non-dialogo tra i due si tinge di colori diversi: momenti ironici, passaggi di allarmante lentezza, istanti concitati, brevi parentesi metateatrali in cui gli spettatori sono posti al centro di un gioco che ruota attorno all’illusione del teatro. La cifra stilistica è quella del Teatro Forsennato, il gruppo teatrale che ha prodotto lo spettacolo e che compone il materiale drammatico attraverso un attento e sistematico lavoro sull'improvvisazione.

Bravo Dario Aggioli, credibile la sua partitura dell’azione che, pur essendo a rischio cliché, risulta efficace e naturale. Meno convincente Angelo Tantillo, spesso travolto dall’esuberanza del compagno di scena, a volte sottotono. Nel gioco a due che questo testo richiede, il disequilibrio delle parti non è un aspetto da sottovalutare poiché rischia di trascinare lo spettacolo verso un pericoloso one man show in cui la bella storia tende a scivolare in un grigio e asettico secondo piano. Bellissime e di grande effetto le maschere a mezzo viso realizzate in gioventù da Julie Taymor.

Gli Ebrei sono Matti, regia: Dario Aggioli, con: Dario Aggioli e Angelo Tantillo. Fino al 10 febbraio, Teatro dell’Orologio, Sala Gassman, Roma.

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