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Giorgio Vacchiano

di Daniela Ropelato

«Spesso dimentichiamo la forza che nella nostra vita ha una visione. A muoverci è il desiderio di qualcosa di bello!»

Giorgio Vacchiano è una figura chiave nel panorama accademico italiano per quanto riguarda la ricerca sulla sostenibilità forestale e la comunicazione dei temi ambientali. Dal 2018 è professore associato in Gestione e pianificazione forestale all’Università di Milano. Si occupa in particolare delle interazioni tra ecosistemi terrestri e crisi climatica, con particolare attenzione alla resilienza delle foreste e alla loro gestione sostenibile, attraverso modelli di simulazione per analizzare l’impatto del cambiamento climatico. Collabora con enti territoriali e aree protette. È docente incaricato presso l’Istituto Universitario Sophia del corso di Ecologia integrale e politiche pubbliche.

Nel 2018 è stato inserito dalla rivista Nature tra gli 11 scienziati emergenti a livello mondiale. Ne La resilienza del bosco (Mondadori, 2020) affronta questi temi in modo accessibile al pubblico.

Docente in Scienze forestali, ma anche viaggiatore, fotografo e divulgatore…

Nel mio percorso, fin dall’inizio, non c’è solo accademia, ma anche musica e una forma di teatro sociale che si è rivelato utile per sviluppare una certa capacità narrativa di raccontare la ricerca. È una passione che ho sempre avuto: ascoltare e raccontare.

Da dove viene l’interesse per le foreste?

I miei genitori mi hanno portato in montagna fin da piccolo, ad esplorare i boschi della Val d’Aosta. E poi, un mio professore di liceo mi ha parlato della possibilità non solo di studiare, ma di lavorare insieme alla natura. Così ho scoperto una specie di collaborazione tra i boschi e gli esseri umani, tante storie nascoste. Il bosco che 60 anni fa non c’era ed ora ti affascina, è quello che domani rischia di scomparire… Modificazioni prodotte da generazioni e generazioni di persone che i nostri boschi li hanno coltivati, trasmettendo una certa forma, privilegiando alcune specie. La dimensione del tempo che accompagna questa collaborazione è qualcosa che mi affascina.

Cos’è la resilienza del bosco?

Resilienza è la capacità di un ecosistema di assorbire uno stress ritornando alle condizioni precedenti. Il bosco, ad esempio, deve continuare a reagire e a proteggersi, in condizioni di dissesto idrogeologico, oppure quando è colpito da un incendio… Tutti gli ecosistemi sanno rispondere ad una vasta gamma di stress ambientali, ma se sono troppo rapidi e intensi, la capacità di resilienza rischia di essere insufficiente. È un messaggio preciso.

La rivista Nature ti ha citato tra i migliori 11 scienziati emergenti a livello mondiale…

Un riconoscimento inaspettato! Quando mi è arrivata quella telefonata, ho pensato ad uno scherzo… Devo ringraziare il team in cui ero inserito all’Università di Torino, con i miei supervisori che mi hanno indirizzato a collaborazioni internazionali e mi hanno permesso di sviluppare la mia autonomia di ricercatore. Poteva essere un episodio e nient’altro, invece ne hanno parlato i telegiornali e si è visto che l’interesse per questi temi cresceva. Anche perché sono seguiti altri eventi, come la tempesta Vaia nell’ottobre 2018, e poi gli scioperi per il clima che hanno preso avvio anche in Italia.

L’opinione pubblica si è improvvisamente rivolta alle foreste. Mi sono trovato in una posizione utile per poter intervenire anche sul piano politico. Ho cominciato a collaborare con il Ministero delle politiche forestali, per l’attuazione della nuova Strategia Forestale Nazionale. È una collaborazione che continua.

Un anno fa eri candidato anche al Parlamento europeo…

La mia idea era di offrire una competenza, in dialogo con gli esperti di altri settori e interessi. Perché l’Europa è all’avanguardia per le politiche ambientali: abbiamo il Green Deal – ammesso che riusciamo a mantenerlo –, e poi la Nature Restoration Law sulla biodiversità, nonostante il voto contrario del governo italiano, e la Legge Europea sul Clima, il divieto per le nuove auto a combustione dal 2035: sono alcuni capisaldi che spero vengano mantenuti. Ma le politiche ambientali vanno integrate.

Stai suggerendo di non considerare l’ambiente come un settore a sé?

Quando ci si interessa di foreste, è facile capire che ci si deve occupare anche di dissesto idrogeologico, di aree interne, di clima e di biodiversità: tutto è collegato. Invece rischiamo di pensare alle istanze ambientali solo accanto – o dopo – altre urgenze. Faccio un esempio: non sono molte le città che hanno un Piano del verde e, anche là dove esiste, non è quasi mai integrato con il Piano regolatore, con la pianificazione urbanistica. Il verde è fondamentale per l’adattamento climatico nelle città, per la salute delle persone. Il dilemma che contrappone lavoro e ambiente, come è accaduto con l’Ilva a Taranto, è falso.

Gli scienziati devono prendere posizione?

Se ci sono scelte pubbliche che hanno chiare conseguenze negative sul bene comune, uno scienziato non può tacere. Sugli aspetti climatici e ambientali dovrebbe lavorare con chi fa informazione in modo corretto. Mentre altri diffondono ad arte fake news per interessi particolari, lo scienziato deve garantire la correttezza.

Ti è capitato di trovarti in conflitto nel tuo ambiente di lavoro?

Mi è accaduto nel mio Dipartimento, dove mi trovo a votare contro le proposte di finanziamento che vengono da aziende di estrazione fossile, abituate a strategie aggressive di colonizzazione culturale, e lontane da piani di transizione ecologica soddisfacente.

Nel nostro Consiglio di dipartimento le votazioni erano normalmente all’unanimità, perché quasi nessuno si opponeva ad un finanziamento in arrivo. Per questo i miei voti contrari stupiscono, ma finalmente abbiamo iniziato a parlarne, a discutere le diverse ragioni.

C’è un obiettivo personale che, tra tanti, ti interesserebbe raggiungere in 10 anni?

Direi, sperimentare di più la dimensione politica e vedere se, come scienziato, come comunicatore e divulgatore, posso dare più incisività al mio lavoro. Nell’immediato vorrei migliorare sul piano della comunicazione e far arrivare a più persone, soprattutto a ragazzi e ragazze delle scuole, e ai loro insegnanti che sono mediatori necessari, il messaggio che le soluzioni esistono (e ci sono anche i soldi per attuarle!), che i problemi ambientali non ci chiedono solo scelte tecniche, ma scelte politiche. Vorrei che crescesse un grande dibattito pubblico sulle soluzioni, molto di più che sui problemi, lasciando da parte il peso delle ideologie. I dibattiti su auto elettrica e nucleare, per esempio, mi sembrano operazioni di distrazione di massa. Se invece iniziamo a parlare, ad esempio, di pulizia dei fiumi, prima che arrivino le alluvioni, andiamo a scoprire le soluzioni reali che abbiamo davanti, e che costano molto meno dei danni che continuiamo a subire.

Eppure, un impegno in prima persona come il tuo sembra bocciato di continuo…

Ci sentiamo impotenti quando ci sentiamo soli. Certo, contano anche i piccoli cambiamenti che ciascuno può assumere, e sono tanti, ma i numeri sono contro di noi ed è impossibile incidere a breve termine… Il segreto allora non è tanto fare cose incredibili da soli, ma accorgersi di essere inseriti in una comunità, in una famiglia, una scuola, una città, una nazione, un gruppo scout, un movimento religioso… Insieme possiamo ragionare su ciò che la nostra comunità può smuovere, su ciò che possiamo chiedere ai rappresentanti. E ragionare sulla visione del mondo. Spesso ci dimentichiamo la forza che ha nella nostra vita una visione, ma quando prendiamo una decisione, a muoverci è il desiderio di qualcosa di bello! Direi che vale la pena puntare su questo.

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