In fuga sul treno dei bambini

Ruth Zimbler aveva 10 anni quando, nella sua Vienna, Hitler diede ordine di incendiare sinagoghe, case e negozi. «Eravamo diventati nemici, ma eravamo solo persone». Dalla rivista Città Nuova di gennaio.

Il fumo. Quella puzza di distruzione e di fine. Irrespirabile. Acre. Nauseante. Quell’odore impregna ancora oggi la vita di Ruth Zimbler. A distanza di 80 anni quell’olezzo non si cancella dalla sua memoria. «Avevo 10 anni e mio fratello Walter appena 5. Le fiamme erano più alte del tetto e i pompieri erano impegnati a che non si propagassero nelle case vicine. Gli ordini erano stati chiari. Era la nostra sinagoga a dover bruciare. Era la nostra memoria, gli ornamenti, i libri sacri che dovevano diventare cenere, fumo, nulla».

Era il 10 novembre del 1938 quando a Vienna i luoghi di culto, i negozi e le case degli ebrei vennero dati alle fiamme su ordine di un Hitler che, solo qualche mese prima, aveva sancito vittorioso l’unione di Austria e Germania. «Quella notte e nei giorni a seguire 30 mila tra uomini e ragazzi furono strappati dalle loro famiglie e gran parte di loro vennero trucidati».

La Notte dei cristalli ha cambiato per sempre la vita di Ruth e quel fuoco ha bruciato non solo le pareti di un luogo sacro, ma la sua infanzia. Guardava quelle fiamme inerte, al pari degli adulti, paralizzati e increduli per la crudeltà di quell’atto vandalico. Gli ebrei vivevano a Vienna da 400 anni e da un giorno all’altro si erano ritrovati nemici, deportati, indegni.

«Mio padre e la nostra governante vennero presi e portati nel campo di Dachau. Lei era austriaca e venne rilasciata dopo poche ore. Mio padre invece vi rimase tre giorni, fino a quando le autorità tedesche capirono che poteva essergli utile perché sapeva compilare i documenti che autorizzavano gli ebrei a lasciare il Paese. Tornò a casa, ma promise alle SS che avrebbe lasciato l’Austria al più presto».

Ruth con il fratello e la madre, quel mattino si era ritrovato a fuggire nel bosco, sopra la città. Gli anziani avevano saputo di un imminente e tragico evento e avevano consigliato di mettere i bambini al sicuro. La sera però i tre sfollati avevano deciso di tornare in tram verso casa, quando l’autista crudelmentegridò alla madre: «Sei ebrea e quindi te lo meriti». Cosa si meritavano?

Da quella primavera nessun bambino austriaco giocò con Ruth e Walter; il maestro preferito arrivò con una svastica sulla giacca, il bibliotecario smise di lasciarle consultare i libri dicendole: «Sei un’ebrea». Ruth ebrea lo era sempre stata, cosa aveva cambiato la sua condizione in così poche settimane?

Il clima era spaventoso. «Un giorno – ricorda – stavo giocando con la mia migliore amica, quando un uomo con una giacca di pelle entrò nel nostro appartamento e chiese la chiave della biblioteca della sinagoga. La nostra governante gliela diede perché la sua presenza ci aveva spaventato a morte. Dopo un po’ di ore tornò e tra le braccia reggeva i libri più antichi e preziosi della nostra collezione. Scoprimmo che era sua intenzione costruire un museo a Praga dopo che tutti gli ebrei fossero spariti. Negli anni ’60 ho rivisto quell’uomo sui giornali. Era stato catturato in Argentina. Si chiamava Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dello sterminio».

Come il fumo, anche il volto di quell’uomo è rimasto incancellabile per Ruth. Dopo la Notte dei cristalli, la loro casa venne saccheggiata e posta sotto sequestro e dovettero trovare una sistemazione arrangiata presso amici. Il padre, corrompendo tanti funzionari, nel dicembre del 1938 riuscì a far salire i due figli sul Kindertransport, il treno per i bambini, diretto in Olanda e in Gran Bretagna, dove si stavano allestendo campi per i minori perseguitati.

«Nel tragitto verso la stazione siamo passati nel cortile tra la sinagoga e il nostro appartamento e poco prima di giungere al casello ferroviario, la zia che mi accompagnava mi ha detto: “Bacia queste pareti perché non le rivedrai più”. Ho cominciato a piangere, ma ho dovuto subito smetterla perché mio fratello ha minacciato che mi avrebbe seguito a ruota e io sapevo che placarlo era impossibile. Papà quel mattino era in ufficio e la mamma era ammalata. Da quel momento le lettere sarebbe state il nostro solo contatto».

Ogni 6 settimane quei fogli scritti sono stati l’unico filo che ha legato la famiglia e oggi questo carteggio è custodito nel museo dell’Olocausto di Washington. Ruth e Walter sono stati accolti in Olanda da infermieri e assistenti sociali che li hanno rivestiti, nutriti e consentito di studiare. Il sabato una famiglia ebrea li invitava a pranzo per continuare la tradizione della loro fede e questo fino al 16 ottobre 1939, quando i due fratelli sono riusciti ad imbarcarsi per gli Usa. Il padre era riuscito ad ottenere il visto americano e metterli in salvo.

«Quando dopo 10 giorni di nave ho visto la Signora in verde (la Statua della libertà) nel porto di New York, ho capito che la nostra vita di prima era definitivamente chiusa. I miei genitori mi scrivevano che ci avrebbero raggiunti presto, ma non succedeva mai e tutto quello che mi rimaneva erano le lettere e i 2,40 dollari inviatimi per il viaggio. Al porto di Hoboken ci attendeva una zia di mamma e siamo stati con lei fino al 17 novembre, quando con Walter siamo tornati su quella banchina, stavolta ad accogliere i miei genitori. Il 26 ottobre erano partiti con la Saturnia, l’ultima nave passeggeri salpata dall’inizio della guerra. Mio padre non aveva più niente, aveva venduto tutto per quei visti, ma avevamo i miei 2,40 dollari, il nostro unico capitale».

Da stilista apprezzata, moglie e attivista, Ruth è tornata sui luoghi della sua infanzia per ricostruire quella memoria. Oggi un parcheggio occupa lo spazio della sinagoga a Vienna e in Olanda nessun documento registra il suo passaggio e quello degli altri bambini, ma lei non smette di raccontare di quella notte e della sua memoria. «Quando dicono che sono morti 6 milioni di ebrei, la gente non capisce, ma poi mi vedono e mi ascoltano e allora capiscono che siamo persone e non numeri e che di fronte alle ingiustizie bisogna alzare la voce, non importa la razza, la fede, il Paese: è sempre un attentato all’umanità».

 

 

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