Il riso dei Mediterranei, e di alcuni siciliani o, meglio, degli arabi-palermitani, talvolta sa di follia. Di una fantasia creativa tuttavia capace di raggiungere facilmente il visionario, il surreale, l’eccesso, passando dalla tragedia alla gloria senza alcuna mediazione. Si ride nel film-non-film di Maresco che, ovviamente, non si è fatto vedere in Laguna, e ci si amareggia. La storia è quella di un regista, cioè lui, che sta dirigendo un film su Carmelo Bene. Un film che non finisce mai, si gira e rigira a Palermo e sul petroso Monte Pellegrino, fantasma di Maresco e quasi sua controfigura. Finché il produttore, che è poi quello vero del film cioè Andrea Occhipinti, si stanca e chiude le riprese.
Ovviamente, Maresco rivisita la sua vita dalla giovinezza in poi, se la prende con il cinema italiano attuale e non salva nessuno: attori, registi, produttori, i media, la gente televisiva come Marzullo (se la prenderà?). Fra rivisitazioni di Bergman, Fellini, Pasolini e di sé stesso, l’introvabile regista barbuto sparge stilettate amare sull’attualità cinematografica, si diverte e si dispera ossessionando i non-attori con prove impossibili, proponendo loro la linea del “de-pensamento”, che è di fatto una acre invettiva contro il cinema italiano.
Di qui la vena satirica fino all’assurdo, l’irriverenza verso tutti, anche verso la religione: il volo di un san Giuseppe da Copertino che piomba a terra, il confessore che parla come Carmelo Bene, l’autista che biascica giaculatorie… Insomma, ce n’è per tutti, non si salva nessuno. Nemmeno lui che esprime una desolazione profonda. Essa si sintetizza in una sola frase: la paura della morte. Esorcizzata deridendola, deridendo le creazioni altrui, rimpiangendo un passato e non credendo più al futuro del cinema, cioè dell’arte. Siamo come in un “teatro dei pupi”, alla fine. Eppure Maresco desidera ancora volare sulle nubi, lasciandoci l’immagine blu del mare e della mole del Monte Pellegrino: bellissimi nella luce.