Foibe: una giornata per ricordare

La ricorrenza nazionale del 10 febbraio sulle vittime dei partigiani titini può costituire il momento per riconciliare senza dimenticare. La testimonianza del perdono nella storia di don Francesco Bonifacio

Nelle cavità carsiche di origine naturale e con ingresso a strapiombo (chiamate Foibe) sono state gettate un numero imprecisato di persone – secondo alcuni storici tra le 4mila e le 6mila, secondo altri circa 10 mila – colpite dalla violenza dei partigiani di Tito, in quanto ricollegabili al fascismo, allo Stato italiano o in quanto considerate potenziali oppositrici al regime. Tutto ciò avvenne al termine del secondo conflitto mondiale che ha segnato le popolazioni a  cavallo del mobile confine orientale del nostro Paese: un lungo periodo che è durato dal 1943 al 1947, ben vivo nella memoria dei triestini.

L’unica cosa che non passa mai è il dolore. Gli anni scorrono,  le generazioni si susseguono, i testimoni piano piano se ne vanno, ma il dolore no. Il dolore è sempre lì. Sordo. Pungente. Presente.

Il 10 febbraio di ogni anno il dolore si riacutizza. Si riacutizza, ma si commemora. C’è almeno un luogo temporale nel quale poter versare le lacrime, nel quale poter tenere viva la memoria. Si è atteso il 2004 per veder riconosciuto, dopo decenni di silenzio, un dramma umano enorme. Ci è voluta una legge per dire che «la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». E di giorno in giorno, di anno in anno questo ricordo – e il dolore che sempre lo accompagna – è uscito dalla nicchia del confine orientale e ha trovato spazio anche in altri luoghi dell’Italia, dove targhe, monumenti e cerimonie di commemorazione si uniscono, a distanza, alla doverosa narrazione.

Quest’anno a Trieste arriveranno tanti giovani per partecipare alle numerose manifestazioni e iniziative previste: si parla di circa 500 ragazzi, accompagnati dai dirigenti scolastici e dai docenti, provenienti dalle scuole di Sacile, Brugnera, Pordenone, ma anche da Seriate, Modena, Lecce, Luino e Bagnoli Irpino. Segno che, davvero, la memoria non è più esclusivo appannaggio del confine orientale, ma può essere finalmente condivisa, anche nel segno della riconoscenza verso le persone che hanno pagato con la propria vita la libertà e i diritti che, mai scontati, oggi possiamo vivere ed esercitare.

Il luogo simbolo del Ricordo è la Foiba di Basovizza, sul Carso triestino: un ex pozzo minerario, divenuto sepolcro, dove da decenni, ogni anno si tengono celebrazioni e commemorazioni in memoria delle vittime. Il silenzio nel quale è immersa stride con la terra gemente per il dramma che contiene. Giungendovi davanti, l’unico rumore è quello del calpestìo dei passi sulla ghiaia… intorno, solo silenzio. È sempre stata una visita obbligata e normale per i bambini di Trieste: andare lì, vedere, imparare e ricordare. Quella enorme lastra di marmo con la croce scolpita, faceva impressione e non si dimenticava più. Ora dal 2007 la Foiba è diventata un vero e proprio Sacrario, oltre che Monumento nazionale. E a fianco sorge un ampio Centro di documentazione.

Tra le vittime del confine orientale vi fu anche un sacerdote italiano, il beato don Francesco Bonifacio, ucciso in odium fidei l’11 settembre 1946 vicino Crassiza, oggi terra croata. Luminosa la sua testimonianza di perdono per i suoi aguzzini. Come si legge, infatti, negli atti della beatificazione, giunta il 4 ottobre 2008, egli «per tre volte chiese perdono a Dio per sé e per i propri persecutori, senza rispondere agli insulti e alle violenze, ma usando le ultime forze per segnarsi con la croce dopo essere stato colpito a morte con una pietra». Il suo corpo non fu mai ritrovato: forse c’è chi sa dove si trovi (nel cimitero di San Vito di Grisignana? In una foiba?), ma ancora non parla. Don Francesco amò molto i giovani e fu da questi molto amato. E proprio per questo il suo esempio può essere un ponte tra generazioni, favorendo giusta memoria e riconciliazione.

Sono passati 14 anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo. Oltre 60 dai giorni che scrissero un’altra pagina di storia tremendamente dolorosa. Chi non ha vissuto non può capire fino in fondo: può accogliere, però, con rispetto ed empatia, il racconto dei pochi testimoni ancora rimasti. Tra documentari, dossier, libri, musei, lavori teatrali il materiale da consultare è ampio. Le narrazioni sono vaste, forti, a volte inaccettabili… ma sono doverose. Perché la storia si ripete, ma non insegna. La storia racconta, ma non tocca i cuori. Solo il dolore è narrazione trasversale a tutto: un linguaggio universale comprensibile al di là della lingua di espressione e della generazione di appartenenza. Lasciamo che sia il dolore a trasmettere la memoria. Lasciamo che sia l’incontro con i luoghi e le persone a raccontare il dramma. Lasciamo che sia solo il dolore, non la rabbia o il germe dell’odio, a consegnare il testimone di questa giornata ai più giovani. Solo così, forse, potremo sperare che la storia non si ripeta. Solo così, forse, potremo sperare un giorno in una possibile riconciliazione. Senza dimenticare.

 

 

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