Fincantieri. La proposta della Sicilia

Ieri la manifestazione di Roma e l’annuncio del ritiro del piano industriale. Da imitare l’accordo dello stabilimento di Palermo, con il governo regionale, per il rilancio della produzione
Fincantieri Palermo

I cantieri navali di Palermo hanno una storia antica che risale all’unità d’Italia, con l’armatore Florio. Dopo alterne vicende di acquisizioni e vendite sono diventati uno dei centri nevralgici di Fincantieri. Ci sono stati anni floridi per il cantiere con il varo di navi importanti dalla Savoca del 1934 ai mercantili Grimaldi, alle Century. I bacini sono tra i più estesi del vecchio continente e possono ospitare navi con stazza dalle 19 alle 52 tonnellate. L’ultimo lavoro è stato la realizzazione della piattaforma petrolifera Scarabeo 8 per conto dell’Eni che ha visto impiegate circa 2.700 persone in turni di 24 ore. Dal 2009 la riduzione drastica a circa 220 unità interne e a 300 per l’indotto: una vera e propria mannaia che si è abbattuta sulle famiglie e sulle attività che da Fincantieri ricevevano commesse e lavori.

 

Palermo che apparentemente non sembrava essere stata toccata dal piano industriale presentato dall’amministratore delegato Bono, in realtà si aspettava che una fetta dei licenziamenti annunciati venisse anche qui distribuita. “Non è la prima volta che il cantiere subisce ridimensionamenti – spiega Francesco Foti, segretario provinciale della Fiom Palermo -. Già nel 1996 si era cercato di scorporare la sede palermitana dal gruppo per concederla a privati. Dopo una lunga vertenza, il progetto è rientrato e sono arrivate così tante commesse che il cantiere ha ripreso a funzionare a gonfie vele”. Proprio l’assenza di commesse, invece, sembra all’origine della crisi attuale e del piano industriale che prevedeva la chiusura di Sestri e Castellammare. Gli armatori non ottengono liquidità dalle banche e non pensano a nuovi progetti, ma è inspiegabile invece che le piccole realtà, di commesse ne ricevano molte, anche in riparazioni e una grossa azienda come Fincantieri non riesca ad essere competitiva allo stesso modo. Ci sono poi le esternalizzazioni, concesse a società come la Cartubi, insediatasi nell’ex arsenale di Trieste e che ha raccolto vari imprenditori locali, ma con a capo esponenti di Fincantieri. “Perché esternalizzare, se all’interno ci sono già competenze più che provate?”

 

Gli interrogativi di Foti a riguardo sono parecchi e altrettanti sono i dubbi sulle scelte del nuovo consiglio d’amministrazione, insediatosi nel 2009.  “Abbiamo l’impressione che non ci sia la volontà nella dirigenza di mantenere un primato mondiale, ribadisce il dirigente sindacale. Ci troviamo superati da francesi e da tedeschi, noi che a livello mondiale vantiamo primati per le riparazioni e le trasformazioni”. A Palermo, infatti, sembra che il settore costruzioni verrà chiuso, poiché già dall’agosto 2009 le officine che producevano lamiere sono ferme e così il pre-montaggio. Tutta la catena di lavorazione a poco a poco sta morendo, con più di 1500 operai licenziati o in cassa integrazione. Nessun pensionamento in questo stabilimento che vanta un’età media dei lavoratori di appena 35 anni, poiché il lavoro è realmente duro e tanti, negli anni avevano già lasciato per problemi di salute legati all’amianto.

 

Una novità per Fincantieri Palermo è certamente la trattativa con la Regione siciliana che ha deciso di investire, per il ripristino dei bacini, ben 65 milioni di euro. “L’assessore alle attività produttive, Marco Venturi, si è battuto per avviare le gare di assegnazione dei lavori e questo investimento assicurerà lavoro per ben due anni – conclude Foti. Fincantieri ha ottenuto in concessione delle aree dalle autorità portuali, anche per progettare un eventuale nuovo bacino o per estendere i magazzini. In questo momento ci vogliono investimenti pubblici per sostenere la competitività e penso che anche altre regioni potrebbero imitare la Sicilia. Del resto a questo progetto, noi stiamo lavorando da ben due anni”.

 

Resta però aperta la ferita dei tanti precari, circa settecento, senza diritti. Nino ad esempio grida, esasperato, mentre mostra l’ampiezza della sua maglietta: è dimagrito di venticinque chili da quando ha perso il lavoro ed essendo stato assunto per vent’anni con contratti a termine, non ha diritto a cassa integrazione e indennità sociali. Non è il solo: c’è chi è tornato a vivere con moglie e figli dai genitori, poiché non riesce a pagare l’affitto, né tantomeno il mutuo per una nuova abitazione. La disperazione è tagliente al bar Pecoraro, rifugio di tante storie simili. Giuseppe, invece, è in cassa integrazione da 15 mesi e si ritiene fortunato, ma pesa questa incertezza del futuro. “Devono proprio costringerci a chiedere lavoro all’unica azienda che in Sicilia non va in crisi: la mafia?”. La sua domanda crea gelo, ma tanti annuiscono cupi. La Fiom ha cercato di coinvolgere anche le altre sigle sindacali nella richiesta di ammortizzatori sociali per questi colleghi, ma il tempo stringe e così la disperazione, veramente tanta. Se il ritiro del piano industriale ha fatto tirare un sospiro di sollievo, non si canta ancora vittoria. Si attendono gli sviluppi, poiché in gioco non c’è solo il futuro di una grande azienda italiana, ma soprattutto il presente di tante famiglie.

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