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Firme > Dov'è Dio?

“Fare” la comunità

di Tommaso Bertolasi

Quando una comunità entra in crisi, definirne l’identità diventa spesso una faccenda di vita o di morte. Non di rado, con l’aiuto di consulenti e di post-it colorati si cerca di capire quale sia il “proprio” della propria comunità. Attraverso il restyling di sapore anglofono di alcune antichissime parole vendute al prezzo della novità, si cerca di scoprire qual è la mission comunitaria. Il tutto senza accorgersi che ciò che ha caratterizzato per millenni le comunità (religiose) è stata la loro missione. Ridefinirla dovrebbe far riscoprire l’essenza comunitaria.

Si ricerca allora un mito fondatore, un’epoca dell’oro di una purezza perduta, delle radici a cui tornare. L’operazione è ben diversa dal fare “memoria” di un fatto fondativo attraverso il quale, come insegna la tradizione biblica, il popolo si inserisce in una storia di liberazione che è già stata, ma che, soprattutto, deve ancora avvenire.

Nell’idea del mito fondatore si cerca invece ciò che conferisce identità alla comunità e che la proietta verso un qualcosa di grande che sta oltre sé e che ne garantisce l’integrità. Cioè, si cerca qualcosa di esterno, di assoluto, di sacro e irraggiungibile che faccia da garante della legge identitaria della comunità. La conseguenza è che chi non si allinea alla legge instaurata dal mito, sia esso un qualche dio o qualche ideale – la nazione, la patria, l’eroe… –, diviene l’altro, lo straniero, il fuori-legge, eventualmente il nemico.

Quando una comunità accetta la legge instaurata dal mito fondatore, vive poi nel tentativo di divenire tutti “un cuor solo e un’anima sola”. Ci si coagula attorno a un “uno ideale” in cui le differenze devono essere appianate perché sull’io individuale prevalga il noi comunitario. Noi in cui gli “io” si fondono, si confondono, perché sanno che la propria identità è quella che hanno ricevuto dalla comunità. Il dramma è che il noi, in realtà, vive nella subdola e forse incosciente pretesa egoistica di divenire un grande “io”.

Non possono dunque vivere in questa comunità coloro che non si uniformano al noi comunitario. Lo spazio apparentemente aperto, democratico e plurale dei social assomiglia molto a quello pseudo-religioso di certe “chiese”: uno spazio chiuso, simile a quello delle città medievali, circondato dalle mura di cinta, che proteggevano i simili dai diversi, dai dissimili. Le spade e gli scudi, l’olio bollente e le frecce, oggi hanno il volto di quella “pioggia di insulti” che con un neologismo tanto rozzo quanto efficace gli anglofoni chiamano shitstorm.

Spesso in buonafede, lo sforzo delle comunità in cerca della propria identità è fare la comunità, costruirla, appunto, seguendo un’ideale utopico o impegnandosi per la “fusionalità comunionale” dei suoi membri. Chiediamoci: si può costruire una comunità?

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