Sono considerati “fratelli” i due vulcani Fuji e Etna. L’uno espressione di silenzio e di quiete, l’altro di irrequietezza e di caos. Il primo è spento, il secondo ancora attivo. Rappresentano due civiltà. Scriveva l’antropologo, orientalista, scrittore e poeta Fosco Maraini: «L’Etna ha l’aria della vecchiezza; il Fuji è l’immagine della gioventù. Le sue linee suggeriscono il movimento, lo slancio. L’Etna è possente, ti fa pensare ad un gigante saggio, talvolta è terribile. (…) Il Fuji è agile, fiero come una spada; l’Etna invece è il tempo popolato di ombre senza fine». Prende ispirazione da queste parole, tradotte in una danza ad alto tasso energico, visivo e fisico, la nuova produzione del coreografo catanese Roberto Zappalà per la sua Compagnia Zappalà Danza, Brother to Brother – dall’Etna al Fuji (debutto al Teatro Comunale di Modena per la rassegna ModenaDanza, dopo l’anteprima al Visavì Gorizia Dance Festival).

Ph Luigi Gasparroni
Ed è subito chiaro quanto il confronto tra i due vulcani serva a costruire in scena forme e movimenti che mettono in dialogo il carattere – o l’anima? – di due popoli distanti per cultura e natura: la danza gentile, morbida, controllata, della tradizione nipponica, a confronto con quella vigorosa, esplosiva, tellurica suscitata dalla “Muntagna” (così i catanesi chiamano l’Etna), che Zappalà modella nel segno dell’astrazione, del corpo come forza propulsiva e liberatrice.

ph Giovanni Chiarot VISAVI Gorizia Dance Festival
Brother to Brother si divide in due parti specchianti, spettacolarmente diverse per ritmo e schema, dove l’una sfuma nell’altra col passaggio dal lento fluire dei gesti, all’irrompere sempre più tumultuoso dei corpi sollecitati dal suono percussivo dei tamburi dei fratelli Munedaiko, gruppo dedito alla pratica del taiko della tradizione giapponese. Due linee nette, a piramide, sagomate sullo sfondo bianco, bastano a disegnare il Fuji.

Ph Luigi Gasparroni
Il suono di una sirena (richiamo alla ricorrenza di Hiroshima) immobilizza i 9 performer raggruppatisi dopo il loro ingresso a piccoli passi, illuminati da una luce viola sotto una pioggia di petali blu. Le movenze dei danzatori ricalcano le posture delle “geishe” del Kabuki, con le labbra appena accennate di rosso, tra inchini rituali e gesti cerimoniosi, ventagli aperti e chiusi all’unisono, minuscoli legni in mano ritmati in una passerella rarefatta e sempre più dinamica. Il palcoscenico lattiginoso e trascolorante che li accoglie, insieme ai tre musicisti coinvolti anche nei movimenti, è spazio mentale e fisico, è terra accogliente e vibrante, è abbraccio rituale di forme e di linguaggi.

ph Serena Nicoletti
Quando al cambio di atmosfera, i vestiti fiorati – camicette bianche e lunghe gonne trasparenti – e i vaporosi tutù pastello, cedono il posto ai semplici costumi neri, i corpi irrompono come lapilli incandescenti a terremotare la scena improvvisamente accesa di rosso. L’effetto che da qui segue è dirompente. Dall’improvviso silenzio seguìto dal suono lancinante di una sirena, la danza quasi tribale del gruppo, esplode corale, inarrestabile. La frenesia innescatasi sembra non finire mai, intrecciata com’è con la potente partitura musicale del compositore catanese Giovanni Seminerio, autore, in aggiunta alle percussioni dei Munedaiko, di un magma sonoro che mixa voci, rumori, canti gregoriani, suoni elettronici, rock e note barocche, evocando quel meticciato mediterraneo che appartiene alla Sicilia. Meticciato sinonimo di comunità infine radunata sotto un sole che chiude lo spettacolo.
Il 15 novembre al Teatro delle Muse di Ancona, e successivamente a Pordenone, Torino, Pisa, Barletta, Bari.