Ebuzia e Carvilio: ghirlande per due

Il racconto delle scoperte senza precedenti avvenute in un sepolcro intatto alle porte di Roma

Vi sono scoperte archeologiche che in quanto gettano nuova luce sulle nostre conoscenze dell’antichità meriterebbero di essere diffuse non solo fra gli addetti ai lavori. Una di queste, inspiegabilmente poco pubblicizzata in Italia, a differenza di quanto accaduto all’estero, è avvenuta a pochi chilometri da Roma, nei pressi di Grottaferrata, un territorio ricco di emergenze archeologiche come le Catacombe ad Decimum (al decimo miglio della via Latina), uno dei più antichi complessi cimiteriali cristiani (secoli II-V).

Era la primavera del 2000 quando, presso l’incrocio tra le antiche vie Latina e Valeria, che segnava il confine tra il territorio dell’Urbe e quello tuscolano, durante i lavori per la rimozione di un traliccio nel terreno di un privato, gli scavi rivelarono alcuni gradini in mattoni laterizi che scendevano in profondità fino a una porta di pietra ancora sigillata da tre grappe metalliche. Gli archeologi della Soprintendenza chiamati sul posto confermarono quanto già si intuiva: si trattava di una tomba ipogea intatta. Aperto, dopo due giorni di lavori, il pesante blocco che chiudeva il sepolcro, apparve una camera sotterranea interamente in pietra, con volta a botte. Sulla parete di fondo, proprio di fronte all’ingresso, stava appoggiato un sarcofago marmoreo; un altro simile si trovava a sinistra. L’iscrizione a caratteri rossi letta sul primo riportava un nome: Carvilio Gemello, morto a diciott’anni e tre mesi; Ebuzia Quarta quella incisa sul secondo, il cui coperchio presentava una rottura già riparata in antico. Scoperchiati entrambi i sarcofagi, agli esterrefatti archeologi apparvero non solo due corpi ancora abbastanza intatti dopo duemila anni, ma per di più letteralmente coperti da ghirlande di fiori anch’esse in straordinario stato di conservazione. Ghirlande erano scolpite anche sulle facce dei sarcofagi, alternate a colonnine simulanti il fusto di palme da datteri. Di qui il nome di “Ipogeo delle Ghirlande” col quale venne denominato il sepolcro, risalente al I secolo d. C.

Dai successivi studi interdisciplinari emersero dati di estremo interesse. Ebuzia, nobile matrona romana, aveva generato due figli da mariti diversi: frutto del primo matrimonio con Tito Carvilio della famiglia Sergia era Carvilio, mentre dal secondo con Antestio era nata Antestia Balbina, colei che aveva curato la sepoltura della madre, vedova per la seconda volta (o divorziata). Entrambi i corpi, spalmati con unguenti a base di mirra e colofonia, erano stati adagiati su un uno strato di sabbia per assorbire i liquidi. Inoltre il sarcofago di Carvilio era dotato di un foro d’uscita coperto da un tampone di tessuto, che consentiva l’areazione impedendo al tempo stesso ai microorganismi e alle spore presenti nell’aria esterna di penetrarvi (ma allora i romani conoscevano la realtà dei microbi?). Accorgimenti, questi, che insieme alle particolari condizioni microclimatiche della tomba ipogea spiegherebbero l’eccezionale stato di conservazione delle salme, soprattutto quella del giovane: fatto molto raro a Roma per dei defunti al di fuori dell’Egitto. Per riferirsi ad un altro caso analogo bisogna infatti risalire al 1964, anno del ritrovamento alla periferia dell’Urbe della cosiddetta “mummia di Grottarossa”, una bambina di otto anni il cui corpo si era conservato intatto secondo l’uso egizio.

Le sorprese non erano finite. Sullo scheletro di Ebuzia, oltre a frammenti di una veste di seta e a ghirlande floreali, fu rinvenuto un pesante anello d’oro il cui castone ricoperto da una lente di cristallo di rocca lasciava vedere all’interno, come attraverso un oblò, un miniritratto bronzeo: un busto giovanile maschile nel quale si volle riconoscere il figlio Carvilio: un gioiello così prezioso da poter essere indossato solo in occasioni speciali (difatti questo anello-reliquiario che dovette essere particolarmente caro alla matrona non recava segni di usura, come se fosse appena uscito dalla bottega del gioielliere). Inoltre, fissata con una benda alla testa della defunta, appariva una parrucca rossa fatta di capelli umani, fibre vegetali e crini animali, sormontata da una reticella aurea i cui sottilissimi fili erano intrecciati ad altri di seta.

La presenza su questa singolare acconciatura di tracce di latte di capra, normalmente usato nei riti in onore di Iside, l’assenza della moneta nella bocca dei defunti secondo l’uso romano, come pure i resti di un nocciolo di dattero rinvenuto sul corpo di Ebuzia e le palme da datteri scolpite sui sarcofagi hanno fatto pensare che madre e figlio fossero seguaci della sposa di Osiride, culto egizio molto diffuso a Roma accanto agli altri tradizionali. Non a caso nel 1885 e nel 1908 erano stati rinvenuti nello stesso sito di Grottaferrata i frammenti di una statua del faraone Sethi I, provenienti forse dalla villa di un personaggio illustre legato all’Egitto.

Cosa condusse prematuramente alla tomba il figlio e poi la madre? Il femore di Carvilio fratturato in due punti ha fatto pensare ad una morte per setticemia in seguito a trauma (per es. una caduta da cavallo); d’altra parte la percentuale di arsenico riscontrata nei suoi capelli indurrebbe a sospettare un avvelenamento; inoltre le ricostruzioni antropometriche effettuate sul cranio evidenzierebbero nel giovane una sindrome genetica. Quanto a Ebuzia, morì all’età di 40-45 anni forse anche lei per un incidente, a giudicare dalle evidenti tracce di combustione osservate sulle ossa della parte superiore del corpo. Piccole ossa infantili rinvenute nel suo sarcofago fanno ipotizzare poi, se non una sua gravidanza, la presenza di un nipotino avuto dalla figlia. Coincidenza curiosa, rivelata dall’esame dei pollini provenienti da gigli, rose e viole delle ghirlande funebri: sia Carvilio che la madre conclusero il loro itinerario terreno nello stesso periodo dell’anno, all’inizio dell’estate.

Spontanea, a questo punto, l’altra domanda: come mai questi straordinari reperti non sono stati riuniti in un unico museo? A differenza, infatti, della mummia di Grottarossa, esposta in una teca climatizzata nel museo romano di Palazzo Massimo con accanto l’intero suo corredo funebre (gioielli e una bambolina snodabile), essi sono emigrati in tre luoghi diversi: i resti umani a Tivoli, nel Laboratorio di Antropologia all’interno del Santuario di Ercole Vincitore, dove difficilmente saranno visibili al comune visitatore; l’anello, capolavoro di oreficeria, nel Museo archeologico di Palestrina; e i due sarcofagi vuoti a Grottaferrata, nel Museo dell’Abbazia di San Nilo, all’interno di una riproduzione della tomba. I misteri dei due defunti sono stati in parte svelati, questo della dispersione non risulta ancora che lo sia.

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