In uno scenario globale segnato da ciò che appare come un imminente e terribile scivolamento verso un conflitto su vasta scala in Europa, Tommaso Greco ha scritto un libro di Critica della ragione bellica (Laterza) che presenta una visione completamente opposta alla cultura che si sta imponendo in diversi ambienti e nei media principali.
Si comprende perciò il motivo che ha spinto la Santa Sede a chiedergli di presentare il messaggio che il papa ha scritto per la Giornata mondiale della pace 2026. Un testo, quello di Leone XIV, che è stato pressoché ignorato da una certa stampa che resta a bocca asciutta nel cercare segnali di discontinuità tra Leone XIV e il magistero di papa Francesco, il quale non aveva mai smesso di denunciare, durante il suo pontificato, gli interessi dell’industria delle armi nel promuovere la guerra. Il giorno di Natale 2025, papa Prevost ha parlato esplicitamente dei «giovani costretti alle armi, che proprio al fronte avvertono l’insensatezza di ciò che è loro richiesto e la menzogna di cui sono intrisi i roboanti discorsi di chi li manda a morire».
Nel suo intervento in sala stampa vaticana, Tommaso Greco, professore di Filosofia del diritto presso l’Università statale di Pisa, ha preso esplicitamente di mira i politici cristiani che, convertiti dalla forza della ragione alla “ragione della forza”, mettono «da parte il messaggio del Cristo proprio là dove esso maggiormente chiede di essere messo alla prova della Storia».
Grande esperto del pensiero di Simone Weil, Greco non si sottrae alle domande avanzate in questa intervista che cerca di capire la reale possibilità di destrutturare la narrativa bellica prevalente e di indicare un’alternativa concreta alla logica delle armi.
La parola disarmo, infatti, incute comprensibilmente un senso di smarrimento in un clima di paura per la minacciata espansione della Russia di Putin, presentata come un nuovo Hitler.
Professor Greco, la domanda è secca: il riarmo non è un atto obbligato davanti alla Russia definita “minaccia esistenziale” nel libro Bianco della difesa della Ue? Non è proprio la logica della deterrenza che permette di evitare lo scontro e preservare la pace?
Diciamo intanto che affermare che Putin è il nuovo Hitler è un pilastro della propaganda di guerra che si basa su un’analogia storica forzata. E lo dice uno che critica Putin da sempre, non dal 2022, mentre altri ritenevano, richiamandosi al solito ‘realismo’, che fosse necessario avere sempre ottimi rapporti di amicizia con il capo legittimo di un grande Paese. Questo per dire che l’ascesa di Putin, come quella di Hitler d’altra parte, non è stata frutto di un evento improvviso, ma la conseguenza diretta di scelte sbagliate: l’umiliazione inflitta alla Germania dagli stati europei dopo la Prima Guerra Mondiale, un pericolo che statisti come Francesco Saverio Nitti avevano lucidamente denunciato, nel caso di Hitler.
E nel caso odierno di Putin?
Bisogna aver presente i gravi errori strategici dell’Europa, tra cui l’aver abbandonato Michail Gorbačëv in una “totale solitudine” e l’aver successivamente supportato in vari modi un regime discutibile fin dai suoi esordi, ignorandone sia le derive autoritarie, sia le violazioni continue del diritto internazionale, fino all’invasione dell’Ucraina. Tale contestualizzazione non mira a giustificare l’aggressione russa, che è e resta ingiustificabile, ma dovrebbe produrre un necessario atto di riflessione e di autocritica. Autocritica non fine a se stessa, naturalmente, ma destinata a comprendere quali possano essere i mezzi efficaci per contrastare la politica di Putin, cosa che non possiamo non fare.
E quindi, con il senno di poi, oggi cosa possiamo fare?
Innanzitutto, non alimentare il clima che rischia di portarci alla guerra. Quando si parla di deterrenza, ciò che si dimentica è che si tratta di una politica squilibrata per definizione, perché se io mi riarmo giustificandomi col fatto che tu ti sei armato, poi anche tu ti riarmerai, e io dovrò ancora riarmarmi, in un gioco senza fine, la cui conclusione, come sempre, sarà solo una nuova tragedia. L’Europa potrebbe e dovrebbe fare altro, riorganizzando le sue forze già esistenti (e consistenti) e soprattutto rilanciando il suo progetto istituzionale, passando finalmente a rappresentare un organismo unitario e autorevole.
Se la logica della deterrenza conduce ad esiti tragici, che alternativa reale rimane? Quella del pacifismo etico?
Di fronte al dilemma tra un pacifismo puramente etico, che punta sulla conversione dei cuori e richiede tempi lunghi per realizzarsi, e il cosiddetto pacifismo della deterrenza, basato esclusivamente sulla forza militare, occorre aprire una terza via, che non può non essere quella del pacifismo giuridico. Questo approccio non è un’utopia, ma una strategia pragmatica che si fonda su strumenti di diritto internazionale già esistenti. La sua efficacia poggia, prima che sulla possibilità di esercitare una forza organizzata, innanzitutto sul fatto di prendere il diritto sul serio. Lo ha detto nel modo più efficace Daniele Menozzi nell’intervista che è stata pubblicata su cittanuova.it il 27 dicembre. Riprendo pari pari le sue parole: «Avvio di un disarmo progressivo e bilanciato sotto il controllo delle Nazioni Unite che abbia come obiettivo finale la distruzione delle armi nucleari; soppressione simultanea del servizio militare obbligatorio in tutti i Paesi; introduzione del volontariato per la formazione di un contingente militare necessario al mantenimento dell’ordine pubblico interno agli Stati e allo svolgimento delle funzioni di polizia internazionale sotto la guida delle Nazioni Unite; istituzione dell’arbitrato obbligatorio per la soluzione delle controversie tra gli Stati, stabilendo precise sanzioni per il paese che ad esso si sottraesse».
Questa soluzione non attende una conversione morale né si affida alla logica delle armi, ma propone percorsi istituzionali e legali in gran parte già disponibili per la risoluzione dei conflitti. “Troppo irrealistico?” direbbe qualcuno che si appella continuamente alla “realtà”, come se fosse qualcosa di predeterminato. Chi ragiona in questo modo, dimostra di non conoscere il modo in cui funziona il diritto.
E come funziona il diritto?
Non si applica “da solo”, ma funziona in gran parte perché chi ha doveri li adempie e li fa adempiere. Funziona così anche il diritto interno, il diritto penale ad esempio. Se si dice, come è avvenuto, che «il diritto internazionale vale fino a un certo punto», gli si toglie ogni credibilità. Pensi a quanto potevano cambiare le cose in Palestina se l’Europa, applicando il diritto internazionale, avesse tolto il suo appoggio ad una politica atroce che ha prodotto una quantità enorme di morti e sofferenze. L’argomento che “il diritto internazionale non funziona”, è sempre sospetto. Se non ci sono degli interessi diretti, viene usato quanto meno per darsi ragione da soli — uno sport molto praticato tra i cosiddetti ‘realisti’ — per poter continuare a sostenere che solo la forza conta.
Come si poteva applicare il pacifismo giuridico alla crisi ucraina? Si può ancora proporre oggi?
Si doveva agire nello spirito di un pacifismo giuridico ‘orizzontale’, cioè basato sui rapporti di reciproco riconoscimento. Si doveva quindi, innanzitutto, promuovere un negoziato non predeterminato, invitando le parti a confrontarsi su una prospettiva aperta. Avviare cioè trattative reali, senza rivendicazioni predefinite da entrambe le parti, per esplorare soluzioni politiche che potessero prendere in considerazione le rivendicazioni di tutte le parti. Si poteva e si può superare una visione rigida della sovranità e considerare soluzioni, come ad esempio statuti speciali per le regioni contese, riconoscendone la complessità demografica e culturale.
E ora cosa si può fare?
Sempre a proposito di cosa si poteva fare, è emblematica la riluttanza a intervenire sugli asset finanziari russi congelati. Azione, peraltro, legittimata dal diritto internazionale in caso di gravi violazioni. Siamo invece arrivati al paradosso e all’ipocrisia di un’Europa disposta a rischiare di arrivare alla guerra diretta con la Russia, ma che si fa scrupoli a violare il diritto di proprietà legato agli asset. Si mandano a morire migliaia — o centinaia di migliaia, magari milioni — di persone ma si salvano i soldi? Sono tante le leve da muovere per convincere Putin al rispetto del diritto. Insomma, occorreva — e occorrerebbe ancora — aprire canali di dialogo e allo stesso tempo mostrare fermezza sul fatto che non sono tollerabili le violazioni del diritto internazionale. Un punto assolutamente decisivo oggi, quando si profilano ulteriori situazioni delicate (si pensi a quanto i vertici statunitensi stanno dicendo da tempo a proposito della Groenlandia).
Quali altre azioni possono proporsi?
Si possono promuovere sul territorio forme di presenza disarmata per de-escalare la violenza e proteggere le popolazioni civili, invece di alimentare il conflitto con ulteriori armi. Purtroppo, l’Europa sembra aver rinunciato al proprio ruolo di potenza civile, di attore politico capace di proporre soluzioni originali e pacifiche.
Se si fosse trovato al governo il 24 febbraio 2022 cosa avrebbe fatto in merito alla fornitura di armi all’Ucraina?
È difficile dire cosa si sarebbe fatto in situazioni in cui non siamo stati. Probabilmente avrei approvato la fornitura di armi “all’inizio”, come misura estrema di emergenza, ma mi sarei mosso in tutti i modi per arrivare ad un immediato cessate il fuoco. La legittima difesa, infatti, è un istituto giuridico che vale “qui e ora”, non una giustificazione per una guerra senza fine che serve solo a distruggere il Paese che si vorrebbe aiutare, prolungando indefinitamente il conflitto. Mandare le armi e non adoperarsi in modo ossessivo — da non dormirci la notte — per risolvere il conflitto, chiedendo ad esempio una mano ai grandi stati che sono vicini alla Russia, come la Cina, rischia di essere fortemente ipocrita. L’Europa aveva la possibilità e il dovere di compiere una serie di azioni decisive che erano alla sua portata, come costruire un dialogo strategico con potenze globali, come appunto Cina e India, per creare un fronte diplomatico più ampio, ma soprattutto lavorare attivamente per far funzionare l’ONU, invece di constatarne passivamente (anzi, lavorando alacremente per aumentarne) l’irrilevanza. Infine, si poteva (e si potrebbe) proporre seriamente e portare avanti strenuamente una riforma delle istituzioni sovranazionali, come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per renderle più efficaci e rappresentative.
E adesso ci troviamo con gli Usa che sono passati, relativamente all’Ucraina, dalla linea Biden a quella opposta di Trump…
Con tutta la sua arroganza e prepotenza, Trump ha dimostrato una verità scomoda, e cioè che se la politica vuole, può cambiare le cose… Mettendo in discussione molte cose del passato — e a mio parere sempre sbagliando — ha svelato che l’impotenza della politica è spesso una scelta, non un destino. Questo atteggiamento contrasta nettamente con il fatalismo di una certa classe politica europea che ha bisogno di qualche “catastrofe” per agire, confermando l’abdicazione della volontà politica di fronte alla presunta ineluttabilità degli eventi.
Esistono proposte dell’associazionismo civile per promuovere una nuova Conferenza sulla sicurezza comune, come quella che si è tenuta ad Helsinki nel 1975, coinvolgendo la Russia sovietica in piena guerra fredda. Cosa ne pensa?
Penso che, in un contesto che sembra accettare come inevitabile l’idea della guerra — cosa che a me pare incredibile, nel senso che nell’Europa del XXI secolo non si può credere che ci sia qualcuno che accetti l’idea di un futuro conflitto senza trovarla assurda —, qualunque iniziativa, anche della società civile, è benvenuta. Ma poiché la via per un’alternativa alla guerra passa da un ripensare, un riproporre la vitalità delle istituzioni sovranazionali, occorre urgentemente mettersi alla ricerca di rappresentanti che dentro le istituzioni siano contrari ai venti di guerra. Non c’è alternativa. Cosa vogliamo aspettare? Che ci sia una terza guerra mondiale e una nuova distruzione dell’Europa con milioni di morti per ripartire?
Se la guerra sta tornando, purtroppo, e non si trovano strade per evitarla, torniamo alla domanda che alcuni giovani posero a Mazzolari nel 1951: in caso di richiesta di andare a combattere cosa dobbiamo fare? Alcuni di loro erano stati partigiani e sapevano cosa volesse dire usare le armi. Mazzolari rispose scrivendo il testo censurato Tu non uccidere. Come risponde oggi da filosofo del diritto a questa domanda?
La risposta deve essere netta e inequivocabile: bisogna boicottare la guerra. Bisogna far capire che la guerra non è voluta in questo momento dai popoli europei. C’è una ragione se Kant, nella Pace perpetua, insisteva sulla necessità di una costituzione repubblicana all’interno degli Stati: perché se sono i popoli a decidere sulla guerra, «essi ci penseranno molte volte prima di iniziare un così cattivo gioco». E il motivo è che è sempre il popolo a pagare le conseguenze della guerra. Gustavo Zagrebelsky ha ricordato di recente, in un bel testo pubblicato insieme a don Virginio Colmegna (La Costituzione dei poveri), che l’unica verità persistente della guerra è che c’è una netta distinzione tra «chi la fa» e «chi la fa fare». E lo ricordava anche don Mazzolari, in un altro suo testo del 1945, Il compagno Cristo (il cui titolo doveva essere Il vangelo dei reduci), quando scriveva «tra quei che non sono partiti ci sono coloro che vi hanno fatto partire».