È sempre più melting pot

È avvenuto il – previsto – sorpasso dei nati non bianchi su quelli bianchi. Ma, al di là dei numeri, la situazione è più complessa
giovani americani

Sì, vabbè, lo avevano già detto i Green Day nel 2000: la loro canzone Minority si riferisce – almeno così vuole la vulgata – proprio al fatto che i bianchi caucasici sono inesorabilmente avviati a diventare una minoranza negli Usa. D'altronde, non dimentichiamo che il celebre gruppo musicale arriva dalla California: Stato in cui i bianchi non ispanici, da ormai qualche anno, sono scesi sotto la fatidica soglia del 50 per cento – attualmente sono circa il 40 – giocandosela più o meno alla pari con i latinos, i sudamericani, che però sono l'ampia maggioranza della popolazione nel sud dello Stato. Tanto che, in metropoli come Los Angeles, capita spesso di trovare cartelli e annunci solo in spagnolo – soprattutto quelli pubblicitari, tanto per capire a chi si rivolge il business – e diversi bambini imparano l'inglese soltanto a scuola, essendo cresciuti in quartieri ispanofoni.
 
La notizia dell'avvenuto sorpasso nelle nascite – il 50,4 per cento dei bebè è di etnia non caucasica, complice l'immigrazione e un tasso di fertilità più alto – è dunque un po' la scoperta dell'acqua calda, in un Paese che si vanta di essere il melting pot per eccellenza. E se il fatto che gli Stati più popolosi siano tra quelli in cui i bianchi già sono in minoranza faccia presagire una svolta nella politica (più elettori, più voti: elementare, Watson), è altrettanto vero che la storia è più complicata.
 
Basta dare un'occhiata, ad esempio, al sistema universitario. Una delle maggiori università pubbliche, quella di Berkeley, ha ammesso nel 2011 il 27 per cento di bianchi, il 3 per cento di afroamericani, il 10,7 per cento di ispanici, e il 42 per cento di asiatici: lecito prevedere una futura classe dirigente californiana dagli occhi a mandorla, pur essendo gli asiatici il 13 per cento della popolazione dello Stato e il 5 per cento a livello federale. Se ci spostiamo nella prestigiosa Harvard, sull'altra costa, il quadro è diverso: su 6.641 studenti nello scorso anno accademico, poco meno della metà (2.863) erano bianchi, un migliaio gli asiatici, e appena 542 gli ispanici, quasi alla pari con gli afroamericani (457). Evidente come gli atenei di prestigio rimangano di difficile accesso a molti non bianchi e soprattutto agli afroamericani – che costituiscono il 13 per cento della popolazione –, a causa della scarsa qualità dell'istruzione di base e dei costi proibitivi. E sono in molti a far notare come i posti di potere – sia economico che politico – siano occupati perlopiù da bianchi, per quanto l'elezione di Obama sia stata emblematica. Se poi andiamo a spulciare nelle statistiche del sistema carcerario, e ancor di più in quelle delle esecuzioni capitali, la sproporzione verso i non bianchi è a dir poco stucchevole.
 
Al di là dei numeri, la contraddizione maggiore risiede forse nel fatto che, per quanto siano in aumento i matrimoni misti e le persone multiracial (di razza mista), il famoso crogiolo di etnie apparentemente sembra fondere ben poco. Basta vedere le fotografie caricate sui social network, soprattutto nel caso degli asiatici: dalle gite tra amici alle feste di gala, spesso tutto si svolge tra persone della stessa etnia. Alcune confraternite universitarie sono aperte soltanto ad uno specifico gruppo etnico, così come tante associazioni, e addirittura alcuni gruppi parrocchiali. Perfino i sondaggi che vengono distribuiti per la strada o fuori dai supermercati dai “soliti seccatori” prevedono che, a fini statistici, chi risponde indichi la propria race – anche se è sempre prevista l'opzione I'd rather not specify, preferisco non specificarlo. Difficile capire, per chi americano non è, come conciliare questo senso di appartenenza con la non esclusione degli altri. E per quanto le tensioni e gli episodi di razzismo esistano – basti pensare al recente caso dell'omicidio di Treyvor Martin –, è altrettanto vero che, probabilmente, soltanto il segregazionista più convinto – e forse nemmeno lui – negherebbe che «siamo tutti americani». Un mosaico dai pezzi sempre più vari, ma proprio per questo sempre più interessante.

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