Duetto di giovani

All'Accademia Nazionale di Santa Cecilia debutta il giovane direttore colombiano Andrés Orozco-Estrada con il pianista Rafal Blechacz nel “Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra” di Beethoven
Accademia Nazionale di Santa Cecilia - Roma

Andrés Orozco-Estrada ha 35 anni, Rafal Blechacz 27. Il primo è colombiano, esuberante, direttore in ascesa, il secondo è un polacco fragile, dall’aspetto romantico, dal 2005 sbaraglia i pianisti di tutto il mondo per come suona, soprattutto Chopin. Insieme, per la prima volta a Roma, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: debutto per il colombiano, di casa ormai invece il polacco.
 
Si suona il Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra di Beethoven. È un duetto, un dialogo non solo fra lo strumento e l’orchestra, ma fra i due interpreti. Entrambi possiedono rigore, precisione, decisione. Blechacz ondeggia con la musica, ma è attentissimo alle “entrate” dell’orchestra, cui accenna col capo, come dirigesse pure lui. Andrés è scattante, incita i violini a conferire secchezza, ritmo alle “arcate”, vuole fuoco nei finali, e fa cantare l’orchestra con riposte al millesimo al pianismo del collega. Si respira una certa tensione, che fa solo bene al concerto.
 
Il quarto concerto beethoveniano, anni 1805-1806 (tra l’Eroica e la Quinta sinfonia) è enigmatico. Inizia a introdurre il pianoforte solo per poi far intervenire l’orchestra con temi discendenti, misteriosi, si potrebbe dire. È come un muoversi fra ombre e luci improvvise. Il tocco di Rafal è nitidissimo, luce scintillante, chiara: non una nota scura, fuori posto, ognuna perfetta. Nessuna pesantezza, un’agilità superiore. Rafal è fresco dentro, per cui il secondo movimento, Andante con moto, così liquidamente sfuggente, è leggero, la sua ambiguità, che evoca chissà quali misteri, non pesa. Il finale è un torrente di montagna, pieno di vita. Rafal ha fuoco ma lo trattiene, lo misura. Il risultato è un Beethoven giovanile, ricco di sfumature, ma luminoso come un cielo aperto.
 
Andrés ha invece espresso tutto il fuoco della partitura, in un interscambio col pianista dal risultato saporoso. Ha gesto chiaro, aperto, volto sorridente e incitante. Gli piace far musica con gli altri, ci è abituato da sempre, lo si vede. Nulla dei direttori occidentali pieni di sé, anche se Andrés conosce benissimo la tecnica, è sicuro nel sottolineare sfumature e accenti dagli strumenti (che lo seguono, vedi l’oboe), è disinvolto, allegro. Il duetto tra i due giovani musicisti produce un Beethoven preciso, focoso ma anche elegiaco. Potenza del dialogo, si direbbe.
 
Quando poi Andrés dirige la Settima di Dvorák allora l’incendio è assicurato, come erano i mormorii nostalgici dei due brani vocali precedenti – molto ben eseguiti anche dal coro – cioè Il Canto elegiaco e Calma di mare e viaggio felice. Entusiasmo del pubblico, giustamente.

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