Dove i giovani fanno la differenza

Nei giorni precedenti all’arrivo di papa Bergoglio in terra coreana, un articolo apparso su Vatican Insider della Stampa di Torino ha offerto la possibilità di una riflessione sul ruolo della presenza giovanile in Asia rispetto alla società europea
giovani Asia

Asia, Bergoglio nel continente dei giovani: così ha intitolato un suo intervento il giornalista di Vatican Insider Paolo Affattato, che, qualche giorno prima della partenza di papa Francesco per Seoul, ha offerto una interessante analisi su questo aspetto dell’Asia. Come suggerito dal titolo, il taglio del pezzo proposto dal blog della Stampa di Torino, che offre con regolarità un ventaglio di analisi sulla Chiesa a Roma nel mondo, era finalizzato ad una delle tipologie più significative dello spaccato di umanità che papa Francesco avrebbe incontrato in Corea e che si appresta a incontrare nelle Filippine ed in Sri Lanka agli inizi del 2015. Trovandomi per un mese in Oriente l’articolo del quotidiano torinese, mi ha suscitato alcune riflessioni.

L’umanità dell’Asia può essere letta e riletta sotto molte prospettive: la varietà etnica, quella delle fedi e tradizioni religiose e, quindi, anche delle culture, il permanere di sperequazioni sociali significative come il problema delle caste in India e quello della frattura fra alcuni dei più ricchi della terra e, allo stesso tempo, anche dei più poveri. Ma la presenza giovanile è, senza dubbio, l’aspetto che più colpisce appena si atterra in qualsiasi punto dell’Asia: frotte di bambini attorno agli aeroporti, spesso in attesa di stranieri a cui strappare qualche spicciolo, ma anche scuole con cinque, dieci mila studenti, campus universitari strapieni di giovani. Ed anche nel cuore del business delle metropoli come Hong Kong, Singapore, Kuala Lampur, Mumbai, Bangkok la maggioranza dei protagonisti sono giovani intraprendenti che abbassano tremendamente l’età media anche negli uffici e all’interno delle grandi ditte che ormai hanno stabilito il loro fulcro in Oriente. Immagini tutte che confermano le cifre del rapporto dell’Us Census Bureau: dei tre miliardi di persone con età inferiore ai 25 anni, il 60 per cento vive in Asia. Questo significa che dei 4 miliardi di uomini e donne che costituiscono la popolazione del continente quasi metà è sotto i 25 anni.

Personalmente sono stato testimone di questo nei quasi tre decenni che ho trascorso nel sub-continente indiano, ma lo posso testimoniare in questi giorni in cui mi sono trovato a Singapore ed in Indonesia. A Yogjakarta, una città al centro dell’isola di Giava, dove ci sono alcune delle università più prestigiose dell’arcipelago più grande del mondo – 17 mila isole -, si resta impressionati dalla miriade di studenti che affollano, strade, ristorantini, centri commerciali. Tutti in sella a motorini giapponesi, provvisti di casco, sembrano cavallette che si abbattono a nugoli inarrestabili dovunque. Qualche sera fa nel centro della città indonesiana sono rimasto allibito dal numero di giovani che riempiva un centro commerciale per articoli elettronici. Era la dimostrazione che il mondo dei giovani asiatici corre alla velocità dei social net-work. Qui ormai tutto avviene con sms e whatsapp: i giovani, in qualsiasi momento della giornata e dovunque si trovano sono costantemente in rete fra loro: confidenze, business, programmi, affetto tutto passa attraverso i social networks. Ma anche le dimostrazioni sociali e politiche sono determinate e convocate con questo sistema, capace di raccogliere centinaia di migliaia di giovani sulle immense piazze asiatiche. Lo hanno dimostrato la rivoluzione pacifica delle Filippine del 2001, ma anche le dimostrazioni meno tranquille contro la violenza sulle donne che, lo scorso anno, hanno portato migliaia di giovani per le vie di Nuova Delhi.

In culture, come quelle dei vari punti dell’Asia, spesso assai diverse fra loro, dove l’anziano conserva un ruolo fondamentale nella società, richiamando rispetto e ascolto, i giovani si sono ritagliati nell’ultimo decennio un ruolo fondamentale. Stanno costruendo un continente molto diverso da quello fatto dai Paesi post-coloniali degli anni Sessanta e Settanta e, pure, Ottanta. Qualche giornalista europeo scrive ancora dell’Asia, continente del futuro. Non ci si rende conto che qui c’è il presente. Non sono mancate e continuano a non mancare le crisi: basta vedere la differenza fra gli stipendi ed il costo della vita di una città stato come Singapore e quelli di una metropoli come Jakarta, che dista non più di un’ora di aereo. C’è da impallidire: eppure la presenza e l’impegno dei giovani è analogo.

Si guarda al futuro. Spesso in questi giorni mi sono venute in mente le parole di alcuni giovani italiani che alcuni mesi fa, nel corso di una discussione, mi hanno bollato la loro situazione attuale con un: «La nostra è una generazione senza futuro». Basterebbe venissero per qualche tempo in Asia per rendersi conto di cosa sono capaci i loro coetanei. Qui non si parla d’altro che del futuro, si guarda avanti, sembra che nessuno abbia tempo da perdere. Non dovunque si trovano facilmente lavori, ma ci si sposta: la mobilità giovanile in un Paese come l’Indonesia è impressionante.

A fronte di questo, la prima cosa che colpisce quando si atterra in Europa è la differenza di età fra la gente che popola i nostri Paesi e quella che si è appena lasciata per le strade dell’Oriente. Ci si rende conto che viviamo in una società ‘anziana’, fatta di nonni e, anche, di bisnonni arzilli senza dubbio, giovanili, ma sempre più spesso senza nipoti o pronipoti. In Europa è ormai difficile guardare al futuro, e sembra che siamo incapaci di farlo. Ci vogliono occhi giovani per vedere oltre la vita del quotidiano. Senza dubbio la finanza e l’economia hanno le loro regole e la crisi strutturale che ha colpito e continua a provocare preoccupazione e stagnazione in Europa sono un problema strutturale. Ma il ruolo delle giovani generazioni resta fondamentale: senza di loro il mondo non ha un avvenire ed anche la nostra vita si impantana nei problemi del quotidiano. Il problema è che in Europa i giovani si contano sempre più sulle dita di una mano e, come detto, i pochi, sempre meno, che ci sono faticano a vedere al di là delle nebbie di una crisi che è di identità prima che di economia.

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