Come si può leggere la forte competizione internazionale in atto nella ex Jugoslavia e in particolare in Kosovo? Come potrebbe incidere tale competizione sui rapporti tra USA e UE, e tra le potenze occidentali e la Russia e la Cina?
Sono solo alcune delle domande aperte che occorre porsi per seguire gli eventi nell’area balcanica, prossima all’Italia ma abitualmente rimossa dal panorama dell’informazione come dimostra l’affermazione ricorrente sui 70 anni di pace goduti in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale che ignora la lunga serie di conflitti deflagrati nella ex Jugoslavia
Riprendiamo perciò, dopo una prima parte già pubblicata, la serie di domande aperte e ragionate sulla lettura attenta di queste pagine di storia recente per capire ciò che sta accadendo in Ucraina e il pericolo di un allargamento del conflitto in Europa seguendo la linea di frattura tra forze occidentali e la Russia di Putin
Premessa
Nel 1999, dal 24 marzo al 10 giugno, durante i 78 giorni dell’operazione Allied Force, la Nato impiegò più di 1.100 aerei, decollati prevalentemente dall’Italia, che effettuarono 38mila azioni di combattimento, sganciando più di 20mila tra bombe e missili, soprattutto su Serbia e Kosovo, ma in misura minore anche sul Montenegro.
L’Italia, tuttavia, fu l’unico paese della Nato impegnato nella guerra a non interrompere le relazioni diplomatiche con la Jugoslavia, e una delle forze politiche che sostenevano il governo, il PdCI, pur non uscendo dalla compagine guidata da D’Alema, si disse sempre contrario all’intervento militare, tanto che il segretario del partito Armando Cossutta, nell’aprile 1999, in piena guerra, si incontrò a Belgrado con Milosevic per tentare una mediazione.

Manifestazioni anti NATO in Serbia 2019 (AP Photo/Marko Drobnjakovic)
La surreale atmosfera di quei giorni si evince pienamente dal diario dell’allora ambasciatore jugoslavo a Roma Miodrag Lekic, pubblicato nel 2006 con il titolo “La mia guerra alla guerra”. Le operazioni della Nato ebbero effetti molto pesanti: furono abbattuti decine di ponti, numerose scuole, ospedali, attività economiche, monumenti, mezzi di trasporto, e si verificarono episodi eclatanti, come ad esempio il bombardamento del ponte di Grdelica mentre stava passando un treno di civili (almeno 20 morti); il bombardamento del ponte di Varvarin in quel momento attraversato da una folla di persone di ritorno dalla messa (almeno 10 morti); lo sganciamento di ordigni cluster sul centro cittadino di Niš e sul locale ospedale (dai 14 ai 16 morti); il bombardamento dell’ospedale di Surdulica (almeno 17 morti); il bombardamento di un gruppo di rifugiati albanesi presso Koriša (almeno 87 morti); il bombardamento della sede centrale della tv pubblica serba (16 morti); il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado (3 morti).
Non c’è accordo sul numero complessivo dei civili uccisi dalla Nato, ma le stime più basse ne segnalano circa 500 (le altre arrivano invece fino a 2.500), tra i quali almeno 89 bambini.
Secondo dati Nato, inoltre, 112 siti sono stati colpiti con bombe all’uranio impoverito, i cui effetti sono noti nella penisola a causa delle devastanti conseguenze provocate sulla salute di migliaia di soldati italiani.
Darko Laketic, presidente della commissione d’inchiesta serba sugli effetti dei bombardamenti all’uranio impoverito, ha dichiarato nel marzo 2018 che, secondo i dati preliminari emersi da una indagine medico-scientifica effettuata in collaborazione con l’Istituto per la salute pubblica “Milan Jovanovic Batut” di Belgrado, riguardante i nuovi nati nella Serbia centrale dopo il 1999, emerge una significativa incidenza di vari tipi di tumore sui soggetti in questione. Quanta consapevolezza c’è nella società italiana della gravità di tali dati?
Quarta domanda: nel 1999, in Italia ci furono diverse manifestazioni contro la guerra. Nel 2003, in occasione dell’invasione dell’Iraq, le proteste furono ancora più partecipate, fino all’enorme corteo romano del 15 febbraio 2003, la più grande manifestazione per la pace della storia italiana. Quanto è rimasto oggi di quei movimenti?
Premessa
A più di 20 anni dalla fine delle guerre balcaniche, i Paesi della ex Jugoslavia sembrano configurarsi sempre di più come un terreno di scontro tra le grandi potenze.

Camp Bondsteel
By Task Force Falcon Public Affairs Office – KFOR, Task Force Falcon Public Affairs Office, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4242004
In Kosovo, che si è dichiarato indipendente nel 2008 ed è riconosciuto da circa 100 stati, sono tuttora dislocati più di 3.000 militari e civili appartenenti alla KFOR, la forza militare internazionale a guida NATO diretta fino ad ottobre 2021 dal generale di divisione italiano Franco Federici, mentre gli USA conservano il controllo di Camp Blondsteel, la più grande base americana costruita all’estero dai tempi del Vietnam.
Il piccolo Paese a maggioranza islamica, insieme alla vicina e più grande Albania, riveste tuttavia un ruolo anche nell’ambiziosa strategia neo-ottomana della Turchia di Erdogan, spesso in contrasto con gli interessi atlantici, nonostante l’appartenenza di Ankara alla Nato.
D’altra parte, Slovenia e Croazia sono entrate sia nell’UE che nella NATO, mentre Montenegro (2017) e Macedonia del Nord (2020) hanno finora aderito alla sola Alleanza Atlantica.
La Serbia, vincolata alla Russia per motivi culturali e politici ma anche per le forniture energetiche e militari, si candida oggi a diventare il principale snodo balcanico, insieme alla Grecia, della Nuova Via della Seta cinese (l’interscambio commerciale sino-serbo è aumentato del 30% rispetto al 2018), grazie a progetti come la ferrovia Budapest-Belgrado e a importanti investimenti di Pechino nei settori siderurgico, minerario e dei trasporti.
La fragile e povera Bosnia rimane invece fortemente divisa al proprio interno tra la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Republika Srpska a maggioranza serba.
In questo coacervo di contrapposti interessi internazionali, recentemente USA e UE hanno peraltro assunto posizioni diverse circa il Kosovo. Nonostante la contrarietà delle cancellerie europee, infatti, l’amministrazione Trump aveva ventilato l’ipotesi di uno scambio di territori con la Serbia (l’area di Mitrovica, a maggioranza serba, a Belgrado, in cambio della Valle di Preševo, a maggioranza albanese, a Pristina) come risoluzione definitiva della questione kosovara.
In realtà, nell’accordo siglato a Washington nel settembre 2020 tra il presidente serbo Vucic e il primo ministro kosovaro Hoti, non c’è traccia né di tali modifiche confinarie, né dello sbandierato riconoscimento reciproco tra le due entità statuali. Anzi, al di là di una parziale normalizzazione economica tra Serbia e Kosovo, l’intesa voluta da Trump sembrava diretta soprattutto a limitare la penetrazione russa e cinese in Serbia (le clausole circa gli obblighi di diversificazione energetica e gli impegni a non acquistare tecnologia 5g) e a riaffermare l’egemonia degli USA e dei suoi alleati, con l’impegno dei due Paesi contraenti a inserire il partito sciita libanese Hezbollah tra le organizzazioni terroristiche e a spostare l’ambasciata in Israele a Gerusalemme.
Il Kosovo, che finora non ha intrattenuto relazioni diplomatiche con Israele, è il primo “paese musulmano” a prendere tale decisione (suscitando, non a caso, le decise critiche della Turchia). La sostanziale fragilità di tale accordo risulta tuttavia dal subitaneo smarcarsi della Serbia dall’effettivo trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, nonché dalla denuncia, più volte reiterata, da parte del serbo Vucic, del pericolo di una nuova guerra in Kosovo a causa delle rinnovate tensioni internazionali, sulla scorta di ciò che è successo in Nagorno Karabakh.
Ulteriori elementi di incertezza derivano dal nuovo presidente USA Joe Biden, un convinto sostenitore dell’intervento del 1999, che nel febbraio 2021, appena insediato, ha richiesto alla Serbia di riconoscere il Kosovo senza contropartite territoriali.
Il presidente kosovaro Thaci, capo storico della guerriglia separatista dell’UCK, si è infatti dimesso in seguito alla sua incriminazione per crimini contro l’umanità da parte dal Tribunale dell’Aja, ufficializzata il 30 Novembre 2020. Tachi è stato poi arrestato ed è in attesa dell’esito del processo.
Le ultime elezioni nazionali straordinarie sono inoltre state vinte dal partito Vetëvendosje (“Autodeterminazione”) di Albin Kurti, organizzazione alternativa alla classe dirigente ex UCK e descritta vicendevolmente come “nazionalista di sinistra” o come “sciovinista”, che sta tentando di formare un nuovo governo.
Kurti, primo ministro dal marzo 2021, ha spesso affermato di non considerare il dialogo con la Serbia come una priorità, dicendosi inoltre favorevole a una eventuale unione del Kosovo con l’Albania. Chiaramente una situazione politica in rapida evoluzione come l’attuale potrebbe incidere in vari modi sulle relazioni serbo-kosovare. A maggio 2022 il governo kossovaro ha annunciato che intende presentare domanda di ammissione al Consiglio d’Europa suscitando la reazione di Belgrado che vuole convincere alcuni Paesi a revocare il consenso già espresso all’indipendenza del Kosovo.
Quinta domanda.
Come si può leggere la forte competizione internazionale in atto nella ex Jugoslavia e in particolare in Kosovo? Come potrebbe incidere tale competizione sui rapporti tra USA e UE, e tra le potenze occidentali e la Russia e la Cina? Come si inseriscono in questo quadro Israele, la Turchia e i Paesi del Golfo?
Le prime tre domande aperte sull’ex Jugoslavia sono pubblicate nella prima parte di questo articolo di approfondimento.
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