L’Europa ha vissuto 70 anni di pace dopo la fine del secondo conflitto mondiale? La tesi può essere sostenuta se volutamente si dimentica quanto accaduto con la dissoluzione della Jugoslavia a partire dal 1990, effetto diretto della fine del blocco sovietico.

Monument to the victims of the 1990s Balkan wars, in Belgrade, Serbia, (AP Photo/Darko Vojinovic)
Una serie di conflitti nazionalistici di atavica radice, culminati nel 1999 con i bombardamenti a tappeto della Nato su Belgrado che colpirono obiettivi militari assieme a fabbriche, case, scuole, ponti e ospedali. Qui il link ad una ricostruzione storica integrale.
La narrazione putiniana delle ragioni dell’attacco russo all’Ucraina rimanda a quanto compiuto dall’Occidente in quell’area balcanica che oggi, tra l’altro, resta una polveriera pronta ad esplodere, come fa notare più di un attento osservatore.
È necessario, perciò, smettere di rimuovere questa pagina recente di storia irrisolta ponendosi alcune domande che aprono ad ulteriori approfondimenti sul momento presente.
Per ogni domanda aperta cerchiamo di partire da una premessa ragionata.
Premessa: In seguito alla morte del Maresciallo Tito (1980), la Jugoslavia, promotrice di un modello socialista diverso da quello sovietico, fu sottoposta a un progressivo logoramento. In questo senso, studiosi e osservatori di vari orientamenti hanno individuato diverse cause interne all’origine del processo di smembramento che travolse la Federazione negli anni ‘90: dalla nuova costituzione del 1974, fortemente autonomista e percepita da alcuni come penalizzante per la Serbia; alla revoca, nel 1989, dell’autonomia delle regioni della Vojvodina e del Kosovo da parte della dirigenza serba; fino alla separazione unilaterale decisa da Slovenia e Croazia nel 1991. Tuttavia, sono certamente da considerare anche le forti pressioni internazionali che concorsero al prodursi della tragedia balcanica. Particolarmente eclatante risulta, ad esempio, il forte sostegno di alcuni Paesi occidentali alle autoproclamazioni di indipendenza da parte delle varie repubbliche.
Prima domanda: come si può leggere la drammatica dissoluzione jugoslava e quanto pesarono in essa le responsabilità di Europa e USA?
Premessa: Le sanguinose vicende jugoslave ricevettero un’ampia copertura da parte dei media occidentali. Negli anni successivi, in molti hanno, però, denunciato la parzialità di alcune fra quelle ricostruzioni, soprattutto per l’attribuzione delle colpe della guerra ai soli serbi e per l’identificazione di Slobodan Milosevic, presidente della Serbia dal 1992 al 1997 e della cosiddetta “piccola Jugoslavia” (la Federazione tra Serbia e Montenegro) dal 1997 al 2000, come l’unico responsabile del disastro, tanto da essere definito il “macellaio dei Balcani”, se non il “nuovo Hitler”.
James Harf, direttore dell’istituto statunitense di pubbliche relazioni “Ruder & Finn Global Public Affairs”, ammise, in un’intervista concessa al giornalista televisivo francese Jacques Merlino nel 1993 e di cui diversi stralci sono stati citati in Italia da un articolo pubblicato su Limes nel 1999, che l’organizzazione da lui presieduta era riuscita a “far coincidere nell’opinione pubblica serbi e nazisti.”
Episodi eclatanti, come il lungo assedio di Sarajevo (1992-1996) e il massacro di Srebrenica (luglio 1995) ad opera dell’esercito serbo-bosniaco e delle milizie alleate, hanno permesso di far sedimentare nel pubblico occidentale la demonizzazione dei serbi in quanto popolo, al di là delle responsabilità effettive, mentre altri fenomeni, ad esempio l’espulsione di 300mila cittadini di etnia serba dalla Croazia nel periodo 1991-1995 (secondo i dati di Amnesty International), hanno ottenuto un riscontro molto limitato. Sono peraltro numerose le circostanze che trovarono ampia eco in quei giorni e dei quali dopo si è denunciata la manipolazione.
Ad esempio, il giornalista Ennio Remondino, allora inviato della Rai nei Balcani, ha più volte denunciato che il “massacro di Račak” (15 gennaio 1999), evento spesso indicato come decisivo per l’inizio dell’intervento Nato in Kosovo del 1999, non fu una strage di civili ad opera delle forze serbe, ma una operazione di guerra nei confronti di miliziani kosovari.
Seconda domanda: Come hanno inciso le guerre jugoslave circa la relazione tra media e guerra, e quanto esse hanno contribuito a strutturare i moduli narrativi che, dall’Afghanistan all’Iraq e dalla Libia alla Siria, fino all’Ucraina, sono stati impiegati dal giornalismo occidentale nella descrizione delle successive situazioni di guerra?
Premessa: L’operazione Allied Force, ovvero l’intervento militare della NATO in Kosovo (24 marzo – 10 giugno 1999), al quale l’Italia partecipò sia direttamente sia mettendo a disposizione le basi militari situate sul proprio territorio, ha rappresentato un importante punto di svolta della politica mondiale nel segno della supremazia statunitense. Se, infatti, già la Prima Guerra del Golfo (1990-1991) aveva manifestato l’ascesa degli USA allo status di unica superpotenza, in quel caso le truppe della coalizione internazionale disponevano però dell’egida dell’ONU, viceversa assente nel 1999.
L’intervento in Kosovo ha inoltre determinato, a livello europeo, il passaggio definitivo di gran parte delle sinistre, anche postcomuniste, come nel caso dell’allora governo italiano guidato da Massimo D’Alema, nel campo dell’atlantismo. In una intervista a Il Riformista del 24 marzo 2009, D’Alema ha anzi rivendicato la paternità della scelta di far partecipare Roma all’operazione impiegando i propri cacciabombardieri, mentre l’allora Presidente USA Bill Clinton aveva chiesto all’Italia, secondo il racconto del politico di centro-sinistra, solo di fornire le basi agli alleati.
Terza domanda: qual è stato il ruolo del teatro kosovaro sulle successive evoluzioni politiche italiane ed europee?
(Continua)
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