Durante una sera d’estate un amico mi confessò di non riuscire a comprendere le fragilità psicologiche, probabilmente non consapevole di averle anche lui stesso in alcuni momenti vissute, seppur, in misura diversa. Nello stesso periodo osservavo una grande confusione mediatica, fatta di polemiche e domande tra il concetto di devianza e di disagio psicologico.
Immagino che per ciascuno di noi possa essere importante riuscire a leggere la realtà che viviamo e che ci circonda, poter comprendere, anche solo in parte, fatti e atteggiamenti a cui assistiamo o che ci attraversano. Alla base di alcuni comportamenti che possono risultare disfunzionali o di disagio psichico (autolesionismo, dipendenza patologica, disturbi alimentali, ecc.) vi è un mondo intrapsichico con delle fragilità che, in alcuni casi, possono essere dovute a traumi infantili.
Per poter capire la punta dell’iceberg occorre andare un po’ più giù sul fondale del mare e conoscere quelle che sono le basi che poi possono creare una vulnerabilità. Questo non vuol dire che tutti coloro che hanno avuto esperienze molto dolorose nell’infanzia possono sviluppare un particolare disagio. Ciò crea una predisposizione; se a questa si aggiungono altre esperienze di vita stressanti, questa probabilità aumenta, diversamente, vi sono infinite risorse che la nostra mente e la comunità in cui cresciamo possono offrire per affrontare le criticità e proteggerci da ulteriori sofferenze.
Il bambino davanti ad un contesto violento, a trascuratezza, ad un abuso sessuale, ad esperienze di abbandono, ricerca una distanza psicologica da quel che accade per evitare di sentirsi sopraffatto e quindi per cercare di sopravvivere psicologicamente all’ambiente.
Per preservare un minimo di autostima e di legame con la propria famiglia le vittime devono disconnettersi da quel che è successo, dubitare anche dell’esperienza e disconoscere di aver subito un trauma. Alle volte, quel bambino diventa un “bravo bambino”, dolce, disponibile, perfezionista, autocritico, oppure, molto timido, ricerca un modo per essere accettabile e un po’ più al sicuro in un contesto insicuro.
Talvolta, quindi, il prezzo da pagare è il disconoscimento di quelle parti proprie più vulnerabili e ferite. Si crea una maschera, si fa finta di recitare un ruolo per essere quello che gli altri vorrebbero; in questo modo, l’eredità del trauma resta ancora viva. È possibile che una parte del bambino sia libera di svilupparsi normalmente, mentre l’altra parte porti il segno emotivo e fisico del passato.
Anche da adulti si vive in allerta rispetto ai segnali di pericolo, la persona si prepara a individuare le possibili minacce e gli abbandoni. Pervade uno stato di angoscia, di ipervigilanza, sentimenti di vergogna o di disprezzo verso sé stessi che accompagnano nella quotidianità, insieme alla convinzione che possa succedere il peggio. In alcuni casi, si trovano a combattere contro la dipendenza da sostanze, impulsi autolesionistici, disturbi alimentari o addirittura il desiderio di morire.
Janina Fisher, una delle più grandi esperte di psicotraumatologia a livello internazionale, suggerisce un percorso terapeutico in cui riappropriarsi di quei bambini perduti e delle parti disconosciute porgendo loro una mano gentile, accogliendoli a “casa”, creando sicurezza e facendoli sentire desiderati. Occorre favorire l’integrazione delle varie parti di sé, per raggiungere un senso di completezza, di maggiore sicurezza in sé stessi.
Penso che ciascuno di noi possa partecipare alla costruzione di un contesto sociale più accogliente, essere fattori di “protezione”, coltivare parole gentili e luoghi più “sicuri” dove potersi fidare, dove poter rifiorire.
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