Potrebbe essere più semplice del previsto individuare il filo rosso che lega i personaggi citati nel titolo di questo pezzo, soprattutto se si è aggiornati sulle ultime polemiche e avvenimenti che girano attorno al mondo del cinema, del fumetto, del teatro e della musica.
Goldorak, Francia, 2021
Si parte dall’uscita in Italia del fumetto Goldrake, edito dalla Edizioni BD: è la riedizione di albo edito in Francia dall’editore Kana nel 2021. L’équipe di artisti che ha lavorato all’opera è composta dallo sceneggiatore Xavier Dorison e dallo sceneggiatore e disegnatore Denis Bajram e dagli illustratori Brice Cossu e Alexis Sentenac e dal colorista Yoann Guillo. L’edizione italiana è meritoria perché ci fa conoscere, con un volume ben curato e zeppo di contenuti speciali, una storia a fumetti non solo ottimamente scritta e divinamente disegnata ma anche perché ha il merito di portare in Italia un fumetto che è assolutamente necessario.
La storia utilizza i personaggi della serie animata giapponese del 1975 UFO Robot Goldrake, creata da Gō Nagai per la Toei Animation, e all’epoca anche serializzata in un manga uscito per la Kōdansha nello stesso anno. In Italia, forse più che in ogni altro paese al mondo, la serie animata di Ufo Robo Grendizer – appunto Goldrake nella versione tricolore – riscosse un successo a dir poco epocale, segnando (era il 1978) una intera generazione attraverso la visione del primo anime di questo genere mai approdato su una rete nazionale. Goldrake fu, in Italia, un fenomeno di costume vero e proprio (e quanti, dei ragazzini dell’epoca, indossarono il costume di Actarus o Goldrake a Carnevale); basti pensare ai milioni di copie vendute del disco con la sigla italiana del cartone animato.
Il fumetto dell’epoca era essenzialmente il racconto della stessa serie animata e, da cinquanta anni e passa, il genere dei “robot” nelle anime e nei manga ha costituito un filone aureo raccontato ormai in tutte le possibili declinazioni. Poi, nel 2021, a Xavier Dorison – uno dei più esperti, preparati e prolifici scrittori francesi di fumetti – viene affidata la scrittura di una miniserie dedicata appunto a Grendizer (Goldorak in francese) che ne doveva raccontare le vicende avvenute dieci anni dopo la fine della storia originale. Storia, quella edita dalla Kana, raccolta poi in un volume unico e lo scorso anno tradotta e edita anche in Italia. Dal racconto di queste vicende editoriali iniziano alcune riflessioni.
Il Goldrake di questo fumetto edito dalla Edizioni BD è parte del canone ufficiale del personaggio. Per la Treccani il canone è un elenco di opere o di autori proposti come norma, come modello (per es., il c. alessandrino, catalogo di scrittori greci compilato dai grammatici alessandrini). La storia, quindi, a tutti gli effetti è il continuo delle vicende raccontate per la prima volta cinquanta anni fa ed esaurite con la fine della serie televisiva.
Arriva però fra le mani (allo stesso tempo) sia del pubblico che aveva fruito delle prime storie sia di chi quelle storie non le ha viste perché nato dopo anni (o anche molti anni dopo). Molto saranno tremate le dita sulla tastiera e le mani con i pennelli (reali o virtuali su tavolette) degli artisti francesi che hanno concluso il volume ma il risultato, per essere sintetici, è sicuramente egregio per qualità e rispetto dei personaggi.
Ma.
Il valore dell’opera, per chi scrive, va oltre la qualità della stessa. C’è da passare sopra le critiche provenienti dai gruppi di appassionati dell’epoca di Goldrake perché un sequel era un qualcosa di necessario per raccogliere l’eredità e raccontare personaggi che han fatto la storia (senza dubbio) della cultura occidentale del secolo XIX con la sensibilità e la qualità del 2025. Il sequel è, per la Treccani, nel linguaggio televisivo, (una) nuova serie (con gli stessi personaggi) di uno sceneggiato che abbia avuto grande successo. Valido, ovviamente, anche per fumetti, narrativa, etc.
Gli autori, tutti appassionati fruitori della serie originale del secolo scorso, realizzano una storia rispettosa e avvincente che era ed è necessaria (e magari è anche un po’ in ritardo) per continuare a raccontare il Mito: funzionale (per la Treccani) alle forme di esistenza della comunità e (che) nello stesso tempo fornisce i modelli dell’attività umana che segue le linee di condotta statuite, nel tempo delle origini, dagli esseri mitici. Raccontare il mito è quindi un’attività religiosa affine al culto stesso, di cui a volte fa parte integrante.
Quindi è necessario, per rinnovare il Mito stesso, continuare a raccontarlo; il tutto non in maniera statica, fermandosi a quanto già realizzato, ma deve essere in continuo divenire. In principio il Mito si perpetuava per via orale, passando di bocca in bocca e di racconto in racconto, rinnovandosi ogni volta e aggiungendo qualcosa. Questo modo di tramandare in Mito faceva sì che non si perdesse mai; nel tempo non solo non moriva ma si autoalimentava e si aggiornava, con nuovi dettagli, nuove vicende, magari maggiormente al passo con i tempi. Le storie di Grendizer, bloccate in un racconto sempre uguale a sé stesso, sia in video che in stampa, han perso forza, soppiantate da altre arrivate successivamente e valide solo per chi ne aveva fruito della narrazione al momento dell’uscita della serie. Uno dei modi per rinvigorirne il Mito, quindi, è stato questo ottimo fumetto che ha aggiornato la storia dei protagonisti spezzando un incantesimo che rendeva le vicende del principe Fleed (Actarus nella versione italiana) ferme nell’arco di tempo raccontato nei 74 episodi della serie tv che veniva così definita “completa”.
Un fumetto, quello francese, che -indipendentemente dal giudizio dei fan di vecchia data- ha goduto di una narrazione moderna ed adulta, una costruzione di tavola – tipica del fumetto franco-belga- nella quale molte vignette si inseguono fra loro con risultati cinetici efficaci e della capacità di calare vicende vecchie -in realtà non accadute- ai nostri giorni aggiornando il modo di raccontare e di muoversi dei personaggi, decisamente più coerentemente inseriti nel mondo moderno e nei complessi contesti politici e militari. Un po’ quello successo (l’aggiornare il contesto utilizzando gli stessi personaggi) quando i supereroi iniziarono, alla fine della Bronze Age, a perdere l’innocenza e iniziarono ad essere prodotte storie che affrontavano temi più seri e complessi, interrogandosi anche sul reale ruolo che avrebbero potuto avere (nella realtà) personaggi con super poteri.
Grendizer U, Saudi Arabia, 2024
Il fumetto realizzato in Francia ha spezzato le catene che rendevano il Mito non più nuovamente raccontabile (ma solo da rivedere e rileggere) aggiungendo un capitolo nuovo a quelli già visti e letti; poco più che rumore di fondo sono state le banali critiche dei puristi che han visto nel racconto del ritorno sulla terra di Duke Fleed (protagonista di Goldrake) e della sorella una specie di lesa maestà – pur trattandosi di prodotto nato con la benedizione del creatore Gō Nagai-.
Su questa scia, nel 2024, ha visto la luce una nuova serie anime dedicata al robot giapponese, prodotta dalla Manga Production, compagnia dell’Arabia Saudita, che ne ha affidato la realizzazione alla giapponese Gaina. La serie è un reboot: per la Treccani con questo termine (informatico ma applicato ai prodotti di fiction) si indica la pratica di creare una nuova versione di una stessa storia, modificando la continuità narrativa e creando così un nuovo inizio.
Non un sequel nel canone ufficiale di Grendizer, non un prequel, non un crossover ma un nuovo racconto che, ripercorrendo le stesse tappe, racconta di nuovo la storia già raccontata cinquanta anni fa. Con molte differenze, però. La serie, di 13 puntate, è stata trasmessa anche in Italia nel gennaio del 2025 dalla Rai e, oltre ad aver dato il via alle repliche delle puntate della prima serie “originale”, è ora disponibile sulla piattaforma Raiplay per chi volesse vederla. Iniziando dalle finalità della produzione e terminando con la lunghezza della serie ed il fatto di essere rimasta con un finale aperto, sono tantissimi i punti di distanza fra l’originale e questa versione moderna. Tralasciando le giuste critiche che hanno investito la qualità dell’animazione (integrata però nelle scene di lotta fra i mostri e i robot da una buona CGI) e qualche deficit narrativo (di plot e sceneggiatura) l’approccio al racconto è stato chiaramente diverso; in sole 13 puntate viene raccontato quanto raccontato cinquanta anni prima in oltre 70 puntate e la carne a cuocere, ovviamente, risulta essere tantissima. La serie realizzata è, a tutti gli effetti, una via di mezzo fra un prodotto promozionale (saudita) e un anime che strizza l’occhio ai preadolescenti di oggi, avendo come riferimento le storie vecchie ma senza alcuna paura di staccarsene per approccio di racconto e per tono dello stesso.
Raccontare il Mito di Goldrake attraverso una serie televisiva che in gran parte cambia (e non è un giudizio di merito, che potrebbe essere soggettivamente sia positivo che negativo) sia il modo di essere che parte della storia dei personaggi non è altro che evitare che il Mito muoia, bloccato in un loop eterno di rewatch continuo: lo rianima violentemente e prova a passarlo alle nuove generazioni. Senza entrare nel discorso della qualità dell’operazione, anche in questo caso è la finalità della stessa che è ottima.
Vi sono oggi ragazzini costretti dai genitori a leggere e vedere quel che loro leggevano e vedevano da piccoli, reiterando lo stesso errore, clamoroso, che facevano i loro genitori all’epoca, ovvero sostenere che le cose di quando erano giovani loro erano migliori.
Difficile che (se non con la coercizione) un ragazzino oggi sua sponte guardi le 74 puntate della serie di Goldrake degli anni Settanta. Eppure, non è difficile contestualizzare ed estrapolare in quel racconto (per certi versi anche abbastanza semplice) tutta una serie di elementi fondanti per il successo dell’epoca che potrebbero (dovrebbero) essere validi anche oggi; dai valori all’accettazione dell’altro da noi, dalla solidarietà all’abnegazione.
Nonostante le fortissime critiche di tutti gli over quaranta che hanno puntualmente messo in piedi lunghe filippiche nelle quali, in sintesi, si stabilisce che il Mito era quello del 1978 e come tale non più raccontabile c’è da sottolineare che senza questo tentativo (per molti versi non proprio efficacissimo), però, oggi il Mito di Goldrake sarebbe ignoto a centinaia di migliaia di ragazzini… e rispettare il Mito vuole anche dire riuscire a farlo arrivare ai giorni nostri.
Natale in casa Cupiello, Napoli, 2024
Luca Cupiello è il protagonista della commedia in tre atti scritta da Eduardo De Filippo nel 1931; originariamente rappresentata in unico atto (quello che corrisponde al secondo della versione finale), la commedia è una delle più famose dell’attore commediografo e regista Napoletano, scomparso nel 1984. Nel dicembre del 2024 la Rai l’ha trasmessa in diretta dalla sede Rai di Napoli nella versione messa in scena da Vincenzo Salemme con la regia di Barbara
Napolitano. Tradizione vuole, in Campania, che ad ogni Natale la commedia sia rivista e la versione che molti ricordano quasi a memoria è quella trasmessa nel 1977 dalla Rai (all’epoca le reti che trasmettevano in tutta Italia erano solo Rai Uno e Rai Due) in una fortunata trasposizione nella quale la regia televisiva comunque rispetta i tempi e gli spazi del palcoscenico. E poi ritrasmessa sovente (e registrata su videocassette VHS pronte ad essere tirate fuori la sera del 24 dicembre per decenni). Versione, a colori e con la presenza di Pupella Maggio e Luca De Filippo, figlio di Eduardo, che resta quindi scolpita nella memoria collettiva italiana. E che, a distanza di cinquanta anni, è sicuramente parte del Mito di Eduardo, probabilmente il più grande commediografo italiano di sempre.
Eppure, come abbiamo visto, il Mito, per essere tale, necessita di essere nuovamente e diversamente raccontato. La dimostrazione lampante della non assolutezza e integrità della stessa è data dal fatto che la commedia, nei primi anni di rappresentazione, subisce due variazioni piuttosto importanti, con l’aggiunta di due atti interi (non con mere piccole rettifiche di qualche battuta). La versione del ‘77, però, con gli anni (e soprattutto dopo la morte di Eduardo) è diventata per i napoletani canone ed ha iniziato a essere punto fermo in contesti, quelli del Mito e del teatro, che nulla hanno di fermo e immobile.
Quattrocentoventi (e passa) anni: sono quelli trascorsi dalla stesura, da parte di William Shakespeare, della commedia Romeo and Juliet. Eppure, è facile trovare la stessa ancora rappresentata nei teatri di tutto il mondo. Il Mito di questa commedia è giunto fino ad oggi non perchè la messa in scena del 1610 è stata rivista per secoli su videocassetta; il Mito ha cavalcato quattrocento anni perché è stato raccontato, da centinaia di attori diversi, con centinaia di messe in scena diverse, in dozzine di lingue diverse, con centinaia di adattamenti e interpretazioni diverse, alimentandolo e raccontandolo piegando, talvolta, la narrazione a differenti culture, nazioni, sensibilità. Solo chi non è mai stato a teatro (se non per il saggio della quinta elementare della figlioletta) e magari fruisce di spettacolo teatrali solo in VHS o solo in televisione può dire che quel tale dramma o commedia teatrale esiste solo in quella versione. Chi conosce minimamente il teatro sa bene che la rappresentazione quotidiana, anche nello stesso teatro, con gli stessi attori e la stessa regia, gli stessi costumi, la stessa scenografia, le stesse luci è atto unico e differente. Che sono infinite le sfumature e le cose che possono cambiare, di sera in sera, senza nemmeno valutare quanto e come può essere tutto diverso cambiando attori, regia…
Il teatro non è immobile, non è un prodotto statico come può essere un film, atto unico e rivedibile all’infinito e sempre uguale a sé stesso. L’errore di confondere una rappresentazione teatrale (che vive proprio perché viene rappresentata ancora e ancora e ancora e ancora in modo diverso) con un film (la registrazione televisiva della rappresentazione sul palco del 1977) è gravissimo e, negli anni, ha compromesso ogni tentativo di registi e attori di portare in scena la commedia. Nel 2020 la Rai mandò in onda un film con la regia di Edoardo De Angelis (addirittura nato dopo il 1977) nel quale veniva rappresentata la commedia di De Filippo; non era una mera riproposizione di uno spettacolo teatrale ma di un film vero e proprio, con anche qualche scena in esterna (cosa non presente nella commedia teatrale) ma che comunque seguiva quasi alla lettera il testo di Eduardo. Il protagonista era Sergio Castellitto (non un napoletano, quindi) e le critiche furono feroci; lesa maestà fu affidare il ruolo di De Filippo ad un attore romano (ma per i detrattori “a prescindere” lo sarebbe stato affidarlo a qualsiasi altro attore) così come lesa maestà fu il taglio cinematografico.
La realizzazione aveva spunti interessanti così come qualche zoppia ma, sicuramente, non meritava i pesanti giudizi ricevuti dai napoletani “della VHS del ‘77”. Anche una resa teatrale con battute dette alla lettera può risultare diversa (basta cambiare toni, tempi, atteggiamenti, espressioni, movimenti); figuriamoci se chi mette in scena una versione cinematografica decide di interpretare il testo dando un taglio anche umorale diverso. Questa versione presentò un Luca Cupiello più rabbioso, meno conciliante, quasi sempre arrabbiato: non fu apprezzato. Veniamo al 2024; la rappresentazione messa in onda dalla Rai in diretta dal Centro di Produzione di Napoli vede come protagonista Vincenzo Salemme e la sua compagnia teatrale. Il testo è rispettato ma, con qualche variazione. Soprattutto la verve comica del protagonista mette in scena un Luca Cupiello che esalta i tratti di commedia comunque presenti nella stesura originaria di De Filippo. In questo caso, quindi, una versione più leggera, agli antipodi di quella di Castellitto. Non è stato apprezzato. Scherza coi Santi, ma lascia stare Natale in casa Cupiello del 1977, verrebbe da dire. Invece parliamo della dimostrazione lampante di quanto può l’attore e la regia cambiare un testo, magari anche se seguito alla lettera, affrontandolo con la propria professionalità, stile, regia. Quanto può una pausa trasformare un momento comico in uno drammatico. In più, la diretta televisiva teatrale, rende l’atto artistico unico e speciale: questa è l’essenza del teatro, una realizzazione del momento che non può e non deve essere canone definitivo, ma sentimento ed espressione limitata a quella rappresentazione.
Dalle parole di Eduardo De Filippo allo stesso Salemme: “perché credete che viene tutta questa gente a teatro? Perché aspettano che io muoia sul palco“. Secondo Salemme queste parole avevano un significato preciso: “mi fece capire”, ha detto, “che il teatro è proprio l’arte del presente assoluto, è assenza totale di passato e futuro, puoi anche morire in palcoscenico e quel decesso lo potranno vedere solo quegli spettatori di quella sera precisa. Più che un aneddoto, è stato un insegnamento per tutta la vita”. Quello che sfugge ai più, a quanto pare, che questa arte del presente assoluto continua ad essere arte proprio perché rinnovata e ripetuta ogni giorno su quelle benedette e maledette assi del palcoscenico e non è destinata ad essere cristallizzata in questa o quella rappresentazione né tantomeno su una pellicola di una cassetta VHS.
Superman, Smallville 2025
L’aspettativa sembra essere alta visto che in meno di due mesi il Teaser Trailer ha ottenuto su YouTube quasi sessanta milioni di visualizzazioni: il film Superman (senza aggettivi, senza sottotitolo, senza altre parole accanto), diretto da James Gunn, sarà proiettato per la prima volta il giorno 11 luglio 2025 in moltissime sale cinematografiche in Usa (e probabilmente in tutto il mondo nello stesso momento), salvo imprevisti che possano causare lo spostamento del debutto.
La Warner Bros. Entertainment, Inc., multinazionale nel campo dell’entertainment (nella cui orbita v’è anche la casa editrice DC Comics, editore dei fumetti di Superman) ha affidato nel 2022 al regista e produttore statunitense James Gunn la direzione dei DC Studios, casa di produzione destinata ad occuparsi della trasposizione in video delle storie con protagonisti i personaggi della DC Comics. Superman, come detto, ma anche Batman, Wonder Woman, Flash, etc.
Lo stesso Gunn è regista e sceneggiatore del film dedicato a Superman, uno fra i primi progetti che serviranno a costruire questo nuovo universo cinematografico della DC Comics, azzerando le narrazioni dei vari film precedenti. Fra la Prima e la Seconda guerra mondiale l’apparizione di Superman in un fumetto e il repentino successo decretarono in sostanza la nascita del fumetto stesso come proposta editoriale, nei fatti creando un genere (poi declinato in molti modi, dal supereroistico al comico, etc.) quasi dal nulla; dopo poco si capì anche come i personaggi dei comics potessero avere successo al di fuori delle storie disegnate e Superman divenne personaggio di serie animate, film, serie tv, sceneggiati radiofonici. Praticamente da subito. E dal 1941 al 2025 sono dodici, compreso l’ultimo, i film che han raggiunto il grande schermo con protagonista (o co-protagonista) Superman, impersonato da sei attori differenti, iniziando dal misconosciuto Kirk Alyn.
L’uscita delle prime indiscrezioni sul film di Gunn e il teaser trailer hanno mostrato il volto del nuovo attore, David Corenswet e tanto è bastato a far partire una piccola guerra contro un film che ancora deve essere completato e la rappresentazione di un personaggio, Superman, comunque di fantasia. La critica sottolinea come la rivoluzione in casa Warner/DC abbia spazzato via l’universo cinematografico precedente, nel quale il regista Zack Snyder aveva diretto tre film nei quali era presente l’Uomo di acciaio: L’uomo d’acciaio (Man of Steel) (2013), Batman v Superman: Dawn of Justice (2016) e Justice League (2017). Divisivo e dalle caratteristiche tecniche e autoriali molto precise, Snyder aveva scelto Henry Cavill come protagonista e, nell’immaginario della fanbase, individuato il perfetto Superman, oggi pietra di paragone per l’attuale Corenswet. Tra il Cavill di Snyder e il Corenswet di Gunn la battaglia fra rimpianti per un universo cinematografico cancellato e da riscrivere con un Superman perfetto e il presunto insuccesso e nuovo Superman sbagliato sta andando avanti da mesi. Ma la questione non è ancora chiusa.
Il punto della diatriba sembrerebbe essere il confronto Cavill Vs Corenswet. E invece la questione sollevata dai fan di Snyder è ben più complessa. Un passo indietro: da subito (e parliamo di prima del 1940) il fumetto seriale ha avuto bisogno di una pletora di autori per reggere le uscite mensili o addirittura, a causa del successo editoriale, quindicinali. La moltitudine di serie anche dedicate allo stesso personaggio non poteva essere realizzata dallo stesso team creativo e l’avvicendarsi di molti scrittori e disegnatori sulle pagine della stessa testata ha dato vita ad una (nonostante l’intervento dell’editore e dei vari editor) schizofrenia dei personaggi, raccontati da più punti di vista e talvolta animati da spirito lievemente differente o dalle fattezze leggermente diverse.
Superman – come centinaia di altri personaggi protagonisti del fumetto seriale – è stato interpretato esteticamente e fatto agire in moltissimi modi diversi (con una linea guida comune che però, in ottanta anni di pubblicazioni di storie, chiaramente ha avuto delle deviazioni importanti). Parliamo di svariate migliaia di storie a fumetti e di centinaia di autori che hanno interpretato il personaggio. Dire che il Superman di Cavill (e Snyder) era il vero Superman (rispetto a quello di Gunn) non ha alcun senso. Anche perchè se ci si vuol staccare dal personaggio dei fumetti e far riferimento anche solo al cinema la situazione non è comunque così lineare. Se un albo a fumetti (prima solo in USA e poi in tutto il mondo a partire dalla fine del secolo scorso) può vendere (non sempre) qualche (un paio) centinaia di copie, il cinema è un veicolo molto più potente: “Approximately 120 million people saw Superman in the opening theatrical run in 1978”; questo il primo riscontro numerico degli spettatori che videro nel 1978 il film Superman di Richard Donner con protagonista Chistopher Reeve. E quindi, per molti, il vero Superman cinematografico, protagonista di quattro pellicole portate sul grande schermo dal 1978 al 1987 è proprio il compianto Reeve. Ci sarebbe poi da chiedersi, fra i Superman di riferimento, questo fantomatico vero Superman di Snyder a quale attinga… e anche quello cinematografico di Donner a quale dei Superman del fumetto corrisponda – o a quale di quelli in carne ossa di serial e film precedenti-.
Magari a quello di John Byrne del 1986 se non proprio a quello dei creatori Joe Shuster e Jerry Siegel del 1933 (pubblicato nel 1938). E quello di Snyder e quello di Gunn magari ad uno dei tanti reboot fumettistici degli ultimi trenta anni. Queste domande e questa spasmodica ricerca della fonte, dell’originale, del vero personaggio non hanno alcun senso. Quando si può attingere ad un mare magnum di storie scritte e disegnate da così tanti autori diversi è chiaro che le fonti e le ispirazioni si mischiano e, soprattutto, necessitano di trovare una nuova via per la nuova realizzazione. La mera trasposizione di un fumetto in film (ci sono stati tentativi di questo genere, come per Sin City di Miller) non è mai stata possibile per i film tratti da fumetti supereroistici seriali. Impossibile, insensato, irrealizzabile comprimere in due ore di pellicola cinematografica anche solo una run (serie di storie consecutive che delineano un arco narrativo che ha un suo chiaro inizio ed una sua chiara fine) di una ventina di numeri di albi a fumetti. E, ovviamente, questa traslazione sarebbe quella di quella run e non del personaggio tout court. Ogni film (di Snyder, di Gunn, di Donner) è il racconto di una parte delle vicende già narrate di Superman che più hanno destato l’interesse degli autori al quale è stato aggiunto quasi sempre un qualcosa di nuovo e mai letto o visto prima. Se il discorso sembra già stato fatto è perché, in realtà sì, è stato già fatto.
Il Mito per eccellenza, quello del Superuomo di Metropolis, vive ed è ancora oggetto di enorme attenzione mediatica (vedi i numeri del teaser trailer, nemmeno il trailer completo ufficiale, visto trecentocinquanta volte il numero di copie che vende il fumetto di Superman ogni mese) semplicemente perché si tramanda e si racconta, in tutti i modi possibili (in questo, come detto, è stato un precursore), dal fumetto alla narrativa, alle serie animate alle seri tv ai radiodrammi ai film ai videogiochi! La nuova narrazione di Gunn avrà la voce dello stesso Gunn, che ne ha curato regia e sceneggiatura ma sarà a tutti gli effetti la storia di Superman del luglio 2025. Destinata ad essere, in quel momento, la storia del vero Superman ma presto giustamente destinata ad essere soppiantata dalla storia narrata successivamente. Così è e così sarà che il Mito continuerà ad esistere, non nella glorificazione di uno dei mille Superman, ma nel racconto di molte e nuove voci che lo porteranno a rimanere, come sostiene Harlan Ellison, uno dei cinque personaggi della letteratura conosciuti ovunque nel mondo (per la cronaca gli altri sono Mickey Mouse, Sherlock Holmes, Tarzan e Robin Hood). Archetipo, sempre secondo Ellison, dell’umanità ai suoi massimi livelli, destinato a rimanere Mito per sempre perché incarna, indipendentemente dall’attore che lo interpreta, il regista che lo dirige, il disegnatore che lo dipinge, le nostre più alte aspirazioni sotto forma di essere umano.
Liberato III, 1° gennaio 2025, Napoli
E se di supereroi e identità segrete si è appena finito di parlare, a quanto pare, nella Napoli del ventunesimo secolo, la questione identità segreta non è così fuori moda. Anzi. I successi mondiali dell’autore che si cela dietro il nome Elena Ferrante sono orgoglio partenopeo (libri venduti in centinaia di migliaia di copie e adattamenti cinematografici di gran successo) ma, allo stesso modo, anche la musica made in Naples offre un personaggio di tutto rispetto e di notevole successo la cui identità è sconosciuta, nonostante tenga regolarmente (magari pochi) concerti. Liberato è il suo nome e ormai da quasi dieci anni è parte importante della nuova scena musicale nazionale.
Il primo gennaio 2025, senza preavviso, ha pubblicato il suo terzo album di inediti suscitando reazioni contrastanti. Ignorando un attimo il corollario relativo all’identità celata quello che interessa in questo caso, considerando quanto detto fino ad ora su proprietà intellettuali, Mito e racconto dello stesso, sono alcune critiche abbastanza ingenerose fatte al terzo disco ed in generale al modus operandi che ha partorito le opere poi cantate da Liberato. Uno dei più navigati – ma attenti alle nuove leve come pochi altri – critici musicali italiani, Gino Castaldo, si è chiesto se l’approccio di Liberato alla campionatura non “cominci ad assomigliare troppo ad un atteggiamento parassitario” da parte di Liberato “nel suo dorato e stanco anonimato” e se continuando a “riciclare e riciclare quelli che un tempo sono stati gli originali […] alla fine non ci sarà più nulla da riciclare”. Ovvero: “e se campionare alla fine fosse una specie di parassitismo?”.
In linea teorica la domanda potrebbe anche essere valida ma quello che lascia perplessi è l’applicarla al lavoro di Liberato. Che il campionare possa essere una strada facile per chi arte e ingegno non ha è palese; di contro va sottolineato che parliamo di una pratica artistica che veleggia serenamente verso i 55 anni e che è nata contemporaneamente ad un genere – l’hip hop – che tuttora è in auge. Potrebbe essere inutile – perché Castaldo conosce benissimo quello di cui si parla – ricordare alcuni passaggi fondamentali di questa arte ma è interessante segnalare uno dei primi album che fece massiccio uso del campionamento, Journey through the secret life of plants, del 1979, di uno dei più importanti autori cantanti polistrumentisti del secolo scorso, Stevie Wonder. A sua volta campionato da Coolio (la sua Pastime Paradise) nella hit mondiale Gangsta’s Paradise del 1995; una delle canzoni rap più famose e importanti di sempre.
Il caso di Liberato è meritevole di attenzione: da subito la sua cifra stilistica è stata la rivisitazione dei classici napoletani attraverso una sonorità e una scelta musicale assolutamente contemporanea. Cantore delle piccole cose di Napoli (come, e non sembri una bestemmia, il primo Pino Daniele), sono ricorrenti nelle sue canzoni le citazioni a intere strofe o storie presenti negli antichi classici napoletani. “Te voglio bene assaje” o “Cicerenellla” dovrebbero suggerire qualcosa alle persone nate almeno una quarantina di anni fa ma la faccenda si fa ancora più interessante quando la citazione (o addirittura la riscrittura) è ai classici moderni, quelli della fine del secolo scorso, da Pino Daniele a Gigi D’Alessio (e la sua Anna che si sposa…) o Maria Nazionale o Teresa De Sio. Proprio la citazione della sua “Voglia ‘e turnà” del 1982 è il casus belli che ha fatto partire gli strali di Castaldo: davvero strano perché, per dire, la sua analisi (gli va riconosciuto di averne parlato da subito, con interviste fra le primissime mai fatte) dei primi lavori di Pino Daniele è sempre stata lucidissima: “nella sua musica c’era tutto: da Eduardo alla nuova canzone napoletana che stava nascendo in quegli anni, Bennato e Napoli Centrale, il Sorrenti di Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, tutto questo sembrava racchiuso in una sola personalità forte: la sua”.
Era lo stesso Pino Daniele a dire che il classico stereotipato di “canzone napoletana” andava rielaborato (lui lo fece da subito, vedi “Suonno d’ajere” con Pulcinella) e nei suoi primi lavori non manca la canzone di protesta ma anche il racconto di piccolissime vicende quotidiane di quartiere, di vicolo, oggetto di tantissime canzoni classiche partenopee. A sua volta, Pino Daniele “classico napoletano recente” (o la De Sio, o D’Alessio) ha poi subito lo stesso trattamento da Liberato. Il suo “si caress ‘o munn san” diventa l’attuale “si ‘a città se ne cade”. Molto interessante diventa capire come e quanto riesca a rimasticare frasi concetti e temi di canzoni precedenti tagliandoli in maniera originale e intraprendente ma, tutto sommato, decisamente in linea con un sound partenopeo. Piccole vicende di ragazzi e ragazze che si perdono, si cercano, si tradiscono oppure giovani e meno giovani costretti ad emigrare per trovare lavoro; il tutto mischiando una quantità di generi musicali numerosissima, dalla trap a ritroso fino alla tammurriata, utilizzando (e anche qui, nulla si crea ma tutto si rimastica, nella continua proposta di nuova narrazione) un linguaggio che mischia agevolmente napoletano ed inglese, cosa già fatta (e quasi marchio di fabbrica) da Pino Daniele. “Stongo tutt’ I love you” come il nuovo “I say i’ sto ccà”, in quell’anelito di internazionalità che da sempre è stato calato nel contesto napoletano con enorme efficacia.
La Partenope (o Parthenope, con la lettera “h”, come nell’ultimo film di Paolo Sorrentino) che accoglie, dal mare, chi viene da fuori ma accoglie anche culture e nuovi stimoli culturali e musicali, nonostante veda sovente i propri figli costretti ad andare via (“n’atu tren, n’ata ferroviaj, nun sacc’ ‘aro staij”) per trovare una strada nel mondo (assecondando quel “fujtevenne” che Eduardo De Filippo gridò ai giovani napoletani accortosi dello stagnamento culturale e amministrativo della città). C’è questa potentissima narrazione del Mito di Napoli, della sirena Partenope (“ammò, so’ na sirena”, dicette e me guardaje…) e delle sue piccolissime storie di vita, dal Fortunato che vende i taralli di Pino Daniele alla “guagliuncella napulitana” di Liberato. E, in questo continuo ping pong fra passato presente e futuro, scene di vita quotidiana affrescano una parete con grande sapienza e conoscenza della composizione musicale ma anche della capacità di saper raccontare tout court. E, nella modernizzazione, restano tantissime cose simili… Daniele ci racconta:
E te sento quanno scinne ‘e scale ‘E corza senza guarda’
E te veco tutt’e juorne Ca ridenno vaje a fatica’ E Liberato riprende:
Quanno scinne ‘a matina E vaje a faticà
Sempe ch”e capille ‘nfuse
Il racconto, inteso come dedicare la canzone ad un racconto e non solo ad una serie di frasi messe lì per chiudere una rima, nei vari album usciti e nella costruzione del personaggio diventa protagonista e ben studiato. La sua storia/non storia esce dalle canzoni e dalle pochissime interviste e notizie alle quali si può attingere e passa attraverso la creazione addirittura di un Liberato cinematic universe nel quale i suoi video (dell’ottimo Francesco Lettieri) si sommano in una unica storia. Con la produzione di un documentario in parte animato che anche in questo caso non si sa quanto racconti di vero e quanto di inventato. Tutti prodotti che privilegiano, se si ha l’attenzione e l’interesse a studiare e capire artisti ma anche fenomeni di comunicazione, la reinterpretazione e la narrazione del Mito che, in barba alla critica del pur ottimo Castaldo, ha sempre bisogno di far riferimento al racconto precedente, citandolo, rimasticandolo e reinventandolo.
La proprietà intellettuale e il pubblico dei fedeli
Le produzioni seriali (film, serie tv, fumetti, anche libri) da sempre hanno messo chi fruisce delle opere davanti ad una questione importante: la longevità della proposta editoriale non permette né di mantenere una strettissima coerenza narrativa né è possibile che siano sempre gli stessi autori a dirigere, scrivere, interpretare, produrre, disegnare le storie fornendo così diverse interpretazioni dello stesso Mito.
I custodi dell’integrità delle proprietà intellettuale sovente travalicano il limite del ridicolo avvicinandosi e spesso accomodandosi nel patetico. Laddove i proprietari (se non i creatori) di tali proprietà intellettuali hanno il diritto (il dovere, direi) di trovare le strade che ritengono corrette per rinnovare il racconto delle stesse non manca, praticamente in ogni settore dell’entertainment e dell’arte (seriale, soprattutto) il solito (triste) levar gli scudi perché chi ha il diritto di farlo, essenzialmente, lo ha fatto male non rispettando quello che magari lui stesso ha creato e definito.
Non mancano quindi gli appassionati cultori della saga di Star Wars in grado di spiegare al creatore George Walton Lucas Jr. (tra l’altro regista di uno solo dei nove lungometraggi della saga, che quindi è stata declinata e raccontata da una pluralità di autori) come e quando raccontare questa o quella vicenda.
Nel 1988 vi fu una levata di scudi contro la scelta della Warner Bros di far interpretare a Michael Keaton la tanto attesa versione cinematografica di Batman. A dire il vero anche le scelte di Tim Burton come regista e Jack Nicholson come villain furono criticate ma contro Keaton arrivarono svariate decine di migliaia di lettere come riportato in un articolo su The Wall Street Journal. Fisico, stempiatura, precedenti in commedie… tutto quanto detto contro l’attore si sciolse quando il film uscì, diventando, nei fatti, il primo step, epocale della rinascita dei cinecomics (il provenire da commedie fu anche motivo di dubbio nella scelta di Bryan Cranston come protagonista di Breaking Bad; anche lì sappiamo come andò a finire). Anche questa volta i “duri e puri” fan, che immaginavano di essere gli unici in grado di poter dire alla Warner come realizzare i propri prodotti, si sbagliavano.
Nel 2016 la casa editrice Edizioni BD diede alla luce un volume realizzato da vari autori dal titolo Viva Valentina! nel quale venivano proposte storie con protagonista la fotografa Valentina Rosselli, personaggio creato e portato al successo da Hugo Crepax: con il benestare dei detentori dei diritti del personaggio la pubblicazione parve apparire (per la prima volta veniva edito un volume di Valentina con storie non di Crepax, venuto a mancare nel 2003) come evento unico e irripetibile. Se non fosse che nel 2024 è toccato alla Feltrinelli Comics pubblicare un volume scritto e disegnato da Sergio Gerasi dal titolo Valentina è vera nel quale, con un espediente narrativo, si attualizzano le storie della fotografa e si collega la storia del volume a quella delle storie passate. Figura iconica del secolo scorso nell’immaginario collettivo italiano, Valentina è oggi sicuramente lontanissima (le ultime storie sono comunque di trenta anni fa) dal pubblico di oggi under 50 e quindi, oltre ad avere questo status ormai di classico del fumetto serviva (ed è stato realizzato) un modo per legare i nuovi lettori al personaggio e, magari, alle storie pregresse.
Nel 1995 muore Hugo Pratt; l’autore aveva creato e realizzato le storie di Corto Maltese (l’ultima era uscita nel 1989), altro personaggio iconico del fumetto italiano e anche mondiale. Ai ventinove episodi scritti da Pratt hanno fatto seguito, a partire dal 2015 altre storie scritte e disegnate dagli autori spagnoli Juan Díaz Canales e Rubén Pellejero e dal disegnatore francese Bastien Vivès. Il tenere (riportare) in vita, oggi, nel 2025, un personaggio che aveva esaurito le sue vicende editoriali a causa della morte del suo autore è sinonimo di intelligenza e volontà di permettere ad altri autori di giocare con Corto Maltese, utilizzando una proprietà intellettuale di successo apportando il proprio contributo autoriale. In barba ai “Corto era solo quello di Pratt”, per i quali il personaggio sarebbe dovuto rimanere, nei fatti, sepolto con il suo autore.
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Goldorak
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Grendizer U
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Natale in casa Cupiello (1977)
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Natale in Casa Cupiello (Salemme)
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Natale in casa Cupiello
https://www.fanpage.it/napoli/quando-vincenzo-salemme-incontro-per-la-prima-volta-eduardo-de-filippo-durante-natale-in-casa-cupiello/
Liberato (Gino Castaldo)
https://www.instagram.com/p/DFVtJM4iVCb/?img_index=2
Batman
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