“Non puoi dare ciò che non possiedi”, in effetti è una affermazione molto logica quella che non si possa donare qualcosa che non si ha. Nonostante ciò, sebbene possa apparire una frase banale o superficiale, in realtà ha risvolti abbastanza profondi.
Proviamo a tradurla in “non puoi donare qualcosa che non è dentro di te”, ad esempio potremmo dire “se non hai amore, non puoi dare amore”. Ecco che la situazione si fa più complessa. Allo stesso modo, “se non coviamo né rabbia, né odio, né ansia, non possiamo trasmetterli”. Questo per dire che ciò che esce da noi non dipende da chi ci sta intorno o dalle situazioni che viviamo, bensì dipende esclusivamente da ciò che abbiamo dentro di noi.
Dentro di noi infatti proviamo tanti stati d’animo nel corso della nostra vita, e quello che proviamo non sono solo semplici emozioni, bensì sono reazioni che noi scegliamo di avere.
Quindi noi, e soltanto noi, possiamo esserne responsabili. Siamo cresciuti in una cultura che insegna che non siamo noi i responsabili dei nostri stati d’animo, e facciamo uso di una quantità di frasi per difenderci da ciò di cui pensiamo di non avere il controllo: “mi offendi”, “mi rendi triste”, “mi hai messo in imbarazzo”, e così via. Questo elenco potrebbe essere infinito.
Ogni frase contiene un messaggio secondo il quale non siamo noi i responsabili di ciò che proviamo. Detto ciò, possiamo provare a riscrivere queste frasi, formulandole con esattezza, ovvero che riflettano il fatto che siamo noi a rispondere di ciò che proviamo e che i nostri stati d’animo discendono dai nostri pensieri: “mi sono offesa”, “mi sono rattristata”, “mi sento imbarazzata”.
Potremmo pensare che le frasi della prima lista siano soltanto dei modi di dire e quindi prive di un vero significato, tuttavia esse sono diventate parte della nostra cultura. Quindi le frasi della seconda lista non ci vengono in automatico perché la nostra cultura insegna la mentalità della prima e scoraggia la logica della seconda lista.
Eppure il messaggio è così chiaro: noi stessi siamo responsabili di ciò che proviamo. E se il responsabile delle proprie emozioni siamo noi stessi, non siamo tenuti a scegliere reazioni autodistruttrici. Domandiamoci se essere infelici, sentirci offesi, sentirci giù di tono, rendano a sufficienza. Qui è in gioco la nostra capacità di scegliere la felicità, o quanto meno, di non scegliere l’infelicità, in un dato momento della nostra vita. Sarà un’aspirazione presuntuosa ma, prima di scartarla, meriterebbe attenta considerazione perché scartarla vuol dire lasciarsi andare, rinunciare a se stessi.
Come siamo liberi di preferire la felicità all’infelicità, così nella miriade di eventi della vita ogni giorno siamo liberi di preferire un comportamento che ti appaga a uno che segna la nostra sconfitta.
Allo stesso modo, non possiamo decidere di essere felici portando infelicità nel nostro lavoro, a scuola, nelle amicizie e in ogni ambito della nostra vita. Dobbiamo decidere di portare gioia in ciò che facciamo e nelle occasione che viviamo, perché, in questo modo, non solo la trasmetteremo ma è anche quello che riceveremo.
Se invece portiamo la nostra tristezza in un’occasione che riteniamo triste o infelice, raddoppieremo semplicemente il carico di negatività, incolpando poi la persona o la natura dell’evento per il nostro stesso scontento.
C’è un aforisma di George Bernard Shaw che mi piace molto e che esprime bene questo concetto: «La gente si lamenta sempre di quello che è dando la colpa alle circostanze. Le persone che si fanno strada in questo mondo sono le persone che si alzano in piedi e cercano le circostanze che preferiscono, e che, quando non le trovano, le creano».