Da Tibhirine a Bruxelles: il perdono e l’Islam

20 anni fa, il 26 marzo 1996, 7 monaci venivano sequestrati in monastero dal Gruppo islamico armato in Algeria. Il senso del martirio nelle parole del testamento di frère Christian, quanto mai attuali per cercare la pace
Il funerale dei sette monaci di Tibhirine il 2 giugno 1996

20 anni fa, il 26 marzo 1996, 7 monaci del monastero di Tibhirine vengono sequestrati dagli uomini del Gia (gruppo islamico armato). Inizia un lungo sequestro, che termina il 21 maggio dello stesso anno, con il ritrovamento delle 7 teste, avvenuto alla periferia di Medea. I corpi non sono mai stati ritrovati.

 

Il decennio degli anni ’90 è per il popolo algerino il tempo della tormenta. Il terrorismo islamico produce oltre 10 mila morti all’anno, 100 mila in 10 anni. L’Europa distratta pensava ad altro. Il socialismo francese aveva appoggiato il movimento islamico e alcuni ambienti religiosi puntavano a creare nuovi modelli di dialogo, senza comprendere la singolarità dell’esperienza algerina.

 

La Chiesa algerina, con il card. Duval, aveva immaginato la via della condivisione con la società algerina, abbandonando ogni privilegio, a mani nude, seguendo l’ispirazione di Charles de Foucauld.

Dunque una Chiesa povera e mite, incarnata nella società algerina, capace di dialogare e di condividere la vita con i musulmani, che diventano i primi fratelli.

 

Il monastero di Tibhirine diventa il luogo dell’incontro con il mondo dell’Islam. E quando il terrorismo islamista si scatena all’inizio degli anni ’90, il monastero viene messo nel mirino del terrore islamico e i monaci sono chiamati a scegliere tra restare e partire.

 

19 i cristiani uccisi in Algeria. Nel Natale del 1993 un gruppo di terroristi bussa al monastero e c’è un colloquio drammatico tra il priore frère Christian e il capo del gruppo di terrore.

Il priore rivendica il monastero come luogo di pace e di preghiera e impedisce che entrino con le armi, dando la disponibilità a curare persone ferite tramite frère Luc, monaco e medico, anziano e dunque impossibilitato a seguire i terroristi. Si raccolgono i feriti, si rifiutano le armi.

 

Nei giorni successivi, tra il dicembre e gennaio 1993/94, frère Christian scrive il suo testamento. Una delle pagine cristiane più belle del secolo scorso. Pagine piene di solidarietà con il popolo musulmano, pagine piene di perdono e di pace, pagine che rifiutano l’odio e la violenza.

 

Cosi inizia il priore: «Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male, che sembra haimè prevalere nel mondo e anche di quello che potremmo colpire alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli di umanità e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo infatti come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare un prezzo troppo alto ciò che verrebbe, forse, chiamata la grazia del martirio, doverla a un algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede di essere l’Islam».

 

Ecco la lettura spirituale di frère Christian. Nessun fondamentalismo cristiano da contrapporre a quello musulmano, ma l’accoglienza del perdono e della riconciliazione che vengono da Dio. Nessuna valutazione ingenua dell’Islam: «Conosco quale caricatura dell’Islam incoraggia l’islamismo… L’Algeria e l’Islam per me sono un’altra cosa».

 

In questo testamento, il priore mette in conto la sua morte e mette in conto la morte ad opera di un algerino. Qualcuno ha già bussato e busserà di nuovo. Un qualcuno che già semina morte sui monti e nelle città algerine.

Continua frère Christian: «La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o idealista». Si arriva al cuore del testamento: «Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con lui i suoi figli dell’islam, così come li vede lui, tutti illuminati della gloria di Cristo, frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito Santo»

 

Ecco: vedere i figli dell’islam con gli occhi di Dio. Questo vale per il monastero, questo vale per la nostra società e per i nostri popoli. Il documento si conclude con un grande rendimento di grazie nei confronti degli amici, dei genitori dei fratelli e così si conclude: «Anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quello che facevi. Sì, anche per te, voglio questo grazie e questo “ad-Dio”, nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, padre nostro, di tutti e due. Amen! inch, Allah».

 

Il testamento ci consegna le motivazioni per cui la comunità monastica, dopo una riflessione comune con l’arcivescovo Teissier, decide di restare e non di partire. Tutto questo sta nel mistero di Dio, nel mistero dell’incarnazione, in un rendimento di grazie per tutti, senza nessuna esclusione, senza nessuna fuga.

 

A distanza di 20 anni, questa parola è ancora viva ed efficace. Anche noi, dopo i fatti di Bruxelles e dopo i molti episodi di violenza islamica, siamo chiamati a imparare dai monaci e da frère Christian questo sguardo di tenerezza e di misericordia, che è lo sguardo di Dio sui figli dell’Islam.

 

Non possiamo cercare niente di meno, se vogliamo cercare la pace e il perdono, che sono le uniche armi, capaci di sconfiggere l’odio e la violenza, di abbattere e superare i muri del conflitto.

 

A Bruxelles troppi sepolcri in queste ore tragiche. La risposta sta in quel monastero sull’Atlante, a 20 km da Medea, in quella preghiera disarmata e in quella vita donata, che è la fonte del martirio di una comunità monastica, di una Chiesa povera, di un popolo che cerca incessantemente Dio.

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons