Cronache di guerra e di speranza da Aleppo

Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della città più martoriata della Siria racconta come la speranza possa correre anche tra le strade di un luogo dilaniato dalla violenza
Padre Ibrahim

«Nessuna guerra dura fino alla fine del mondo,tutte hanno una fine così come hanno avuto un inizio. Ed è su questa speranza che vivono le persone rimaste ad Aleppo». Cosi Ibrahim Alsabagh, parroco francescano di Aleppo (e vicario del vescovo), racconta come la speranza possa correre anche tra le strade di un luogo dilaniato, tra bombe e mancanza di cibo e medicine.  È appena giunto a Roma per presentare il suo libro, Un istante prima dell’alba. Siria. Cronache di guerra e di speranza da Aleppo, una fotografia di cosa sta accadendo nella seconda città siriana. Fino a quattro anni fa, i suoi quartieri contavano quattro milioni di abitanti mentre ora si arriva sì e no ad un milione e mezzo. Aleppo è occupata per metà dall’esercito regolare siriano e per metà da gruppi armati di miliziani jihadisti provenienti da decine di paesi del mondo che reclamano la costruzione dello stato islamico, il cosiddetto Califfato.

«Ho avuto difficoltà a lasciare la mia gente per venire in Italia, ma poi ho capito che anche questo è parte della missione», spiega il religioso nel teatro di San Francesco, a Trastevere, accanto alla chiesa dove visse per qualche tempo san Francesco d’Assisi. Nella sua chiesa di Aleppo invece «ora c’è un vento bellissimo dopo la caduta della bomba inesplosa sulla cupola di San Francesco. Hanno ritrovato sul tetto la coda della bomba e l’hanno portata all’altare durante la messa con i fiori all’interno: voi ci mandate le bombe, noi vi restituiamo i fiori».  È questa la frase che padre Ibrahim ha scelto per il retro di copertina del libro: una raccolta di pensieri e racconti, una sorta di diario della quotidianità a sessanta metri dalla linea di fuoco.

«La cosa peggiore è vivere, in modo continuo o interrotto, la caduta delle bombe. Non vanno a colpire solo le caserme: cadono dappertutto, sulle case, le scuole, le piazze, i mercati. Abbiamo fatto tantissime esperienze di questo tipo. Ogni volta che cade una bomba su una casa andiamo là ad aiutare la gente tra le macerie. Sono situazioni drammatiche. Aspettare con una signora una qualche notizia sui suoi due figli rimasti intrappolati sotto le macerie dell’edificio. E aspettare minuti, ore con il rosario in una mano e la mano tremante di una madre nell’altra o ancora accompagnare due genitori al funerale del loro bambino, stringendogli forte le braccia: ecco questo è quel che accade ad Aleppo ogni giorno».

E per quanto riguarda la fuga oltre mare, spiega: «Non riusciamo sicuramente ad impedire che le persone lascino il loro Paese per gettarsi nel mare per tentare di arrivare in Europa. Chi vive ad Aleppo comprende bene perché un padre di famiglia o una madre decidono di lasciare tutto, una casa, in negozio, un lavoro per cercare una speranza di vita in un Paese in cui non hanno nulla. Qualche tempo fa chiesi ad un ragazzo in partenza: «Ma sei sicuro delle persone a cui ti stai affidando per attraversare il mare? Di là sei da solo, non c’è nessuno che conosci». La sua risposta è stata molto secca: «Se resto ad Aleppo sicuramente muoio, se mi butto in mare ho almeno l’uno per cento di possibilità di farcela».

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