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Contro le mine antipersona, la lezione di Vito Alfieri Fontana

di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Armi create per colpire e terrorizzare i civili, inutili sul piano militare, messe al bando dal trattato di Ottawa, ora sotto attacco. La storia dell’imprenditore che ha smesso di produrle ed è andato a fare lo sminatore nell’ex Jugoslavia. Una fonte di ispirazione per la possibile azione politica dell’Italia.

Bonfica mine antipersona in Kosovo. C.FERRARO/ANSA-CD

Chi ha la memoria corta non ricorda che fu la prima amministrazione statunitense di Donald Trump a contrattare con i Talebani il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan dopo 20 anni di presenza militare che ha comportato una spesa di oltre 2mila miliardi di dollari secondo le stime della Brown University, oltre a centinaia di migliaia di morti. L’allora segretario di Stato Mike Pompeo, già capo della Cia, concordò in Qatar i dettagli dell’operazione senza interessare le cancellerie degli altri Paesi coinvolti nella presenza delle loro truppe, anche in modalità di combattimento. Toccò poi a Biden nel 2021 dare applicazione a quell’accordo che mostrò tutte le sue pecche con la fuga precipitosa degli occidentali da Kabul, simile alla fine ingloriosa degli Usa in Vietnam.

Ci si chiede ora, davanti alle dichiarazioni contraddittorie di Trump, se anche l’Ucraina, sostenuta in particolare dalle armi e dall’intelligence statunitense e britannica, sarà costretta ad arrendersi dopo oltre tre anni dall’invasione russa, per il venir meno delle forniture belliche Usa che, assieme a quelle degli alleati, come afferma la von der Leyen, hanno trasformato quel Paese in «un porcospino d’acciaio» e richiesto il sacrificio di migliaia di vite di un popolo finito al centro di una contesa geopolitica tra grandi potenze.

Mentre si palesa l’inefficacia delle trattative per un cessate il fuoco, promesso da Trump in 24 ore dal suo insediamento alla Casa Bianca, il conflitto armato si fa sempre più intenso alla ricerca di una vittoria fatta balenare ad entrambi le parti, con il risultato di far fallire ogni tentativo di soluzione diplomatica avanzato in questi anni.

In un conflitto sempre più disperato contro un nemico “esistenziale” si finisce per legittimare ogni tipo di arma, compresa quella non più indicibile: la bomba nucleare, definita da alcuni “tattica” nel vano tentativo di limitarne gli effetti autodistruttivi.

In questa rapida discesa verso la follia, hanno fatto la ricomparsa le mine antipersona che ci eravamo illusi di poter dimenticare dopo il trattato di Ottawa del 1997 che le ha messe al bando. A quella Convenzione non aderiscono finora 33 Stati che fanno parte dell’Onu e tra questi troviamo Usa, Cina e Russia.

Le mine antipersona sono usate dai russi nel conflitto in Ucraina e, come già scritto, l’allora presidente Biden ha autorizzato l’invio di tali ordigni a Kiev. L’Ucraina ha ora annunciato di volersi ritirare dal trattato di Ottawa come già espresso dai Paesi Baltici e dalla Polonia.

Ci si deve chiedere, a questo punto, il ruolo richiesto al nostro Paese e cioè se deve solo limitarsi ad accettare la scelta compiuta dai suoi alleati, a cominciare dagli Usa, oppure se ritiene di contestare tale decisione a partire da valutazioni di ragionevolezza.

L’Italia vanta, infatti, un primato in questo settore di armi micidiali, perché ne ha prodotte, in passato, in notevoli quantità con aziende, ad esempio la Valsella Meccanotecnica di Brescia, controllate da importanti gruppi industriali. Ma esiste, anche, un vanto per il nostro Paese che, prima del varo del Trattato e delle conseguenti leggi, ha visto la nascita di un movimento di obiezione di coscienza alla produzione di mine antipersona grazie alla decisa presa di posizione delle operaie della Valsella, la più nota tra di loro è Franca Faita, alimentata dal rapporto con i missionari Saveriani e con Gino Strada, il medico fondatore di Emergency.

Vito Alfieri Fontana. Foto: CGA

È italiano Vito Alfieri Fontana, un testimone d’eccezione nella lotta contro la produzione e utilizzo delle mine antipersona che, come spiega egli stesso, sono strumenti “stupidi” e “inutili” sul piano strategico militare, ma micidiali contro la popolazione civile.

Ho avuto modo di conoscere l’ingegnere barese durante due giorni passati tra Ancona e Teramo grazie all’iniziativa del Forum delle associazioni familiari delle regioni Marche e Abruzzo, che hanno premiato e promosso il testo “Ero l’uomo della guerra“. scritto da Fontana, insieme con il bravo giornalista Antonio Sanfrancesco, per raccontare la sua scelta di cessare la produzione di mine antipersona per mettersi al servizio dell’opera di bonifica di tali ordigni nella ex Jugoslavia e di lavorare come esperto della Campagna internazionale di messa al bando di tali armi.

La Tecnovar, l’azienda di famiglia che dirigeva, creata da suo padre, era uno dei tanti esempi di eccellenza italiana nel settore metalmeccanico che si è trovata davanti all’occasione di rispondere ad una richiesta del mercato internazionale della difesa. Di solito non si tratta di un’attività che viene giudicata negativamente dall’opinione pubblica, perché risponde ad uno dei compiti istituzionali degli Stati sovrani ed è considerata una garanzia di lavoro stabile.

Non era, di certo, un problema per l’associazione datoriale e neanche per la rete familiare estesa che vedeva come occasione di prestigio il successo di un loro componente nel mondo imprenditoriale del tutto legale, con la presenza dei rappresentati delle forze armate in fabbrica con ruoli di controllo top secret. Erano gli anni in cui ad esempio l’Iraq di Saddam Hussein era funzionale agli interessi occidentali nella sua guerra contro l’Iran. Il dittatore apprezzava il “profumo italiano” delle armi prodotte con perizia nelle nostre fabbriche. Un destinatario importante dell’esportazione della Tecnova andava in un centro specializzato egiziano seguendo le normative vigenti.

Insomma non si trattava di una produzione illegale, così come avviene oggi per tante aziende della filiera bellica che in tanti modi esportano a Paesi teoricamente vietati dalla legge 185/90 grazie ad eccezioni previste (basta un accordo militare ad esempio) dalla stessa normativa, che tuttavia le imprese di armi intendono superare per non perdere la presenza sui mercati internazionali in continua crescita.

Il “torto” di Vito Alfieri Fontana è stato di ascoltare non solo la voce della maggioranza e del pensare comune, che finisce per giustificare ogni cosa in nome di un familismo amorale che detta legge in molti ambienti.

Gino Strada. ANSA/MILO SCIAKY / DBA

L’ingegnere, di orientamento politico democratico, con studi giovanili alla scuola dei gesuiti, come da buona borghesia barese, accettò di parlare con Gino Strada che gli telefonò a casa non per condannarlo ma per invitarlo ad una presa di coscienza. Decisivo per Fontana è stato poi l’incontro indiretto con don Tonino Bello, che lo invitò ad un dialogo pubblico sulla produzione bellica dove il vescovo presidente di Pax Christi non fu presente perché morto qualche tempo prima per una malattia aggressiva.

Fontana possedeva gli strumenti dialettici per affrontare un dibattito su un tema che conosceva molto bene e si difese in maniera efficace, ma la domanda decisiva della vita è stata quella postagli da suo figlio mentre lo accompagnava a scuola: papà tu produci armi, quindi sei un assassino? Anche sua moglie, per formazione culturale e politica, non è stata indifferente al tipo di produzione della Tecnovar.

Parliamo di una famiglia che, in seguito, ha conosciuto ristrettezze economiche legate alla cessazione di attività di quella azienda. L’attività di sminatore nella ex Jugoslavia ha condotto l’ingegner Fontana lontano da casa per lunghi periodi di tempo, con la sospensione di poter saltare su uno di quegli ordigni che conosceva bene.

Si comprende perciò perché il Forum delle associazioni familiari ha deciso di premiare l’autobiografia di Vito Alfieri Fontana come racconto di una scelta maturata e sostenuta in famiglia, mentre troppo spesso si argomenta sull’inevitabilità di accettare mille compromessi in nome del pane da portare a casa.

Fontana, grazie al concreto amore familiare, capace di resistere alle delusioni e alle ingiustizie, è stato decisivo per arrivare al Trattato di abolizione delle mine antipersona ed ha potuto liberare molti territori dell’ex Jugoslavia dalla presenza terrorizzante di tali ordigni.

Opera di bonifica di mine antipersona. EPA/SABRI ELMHEDWI

Uno dei concetti chiave ripetuto da Fontana nelle assemblee pubbliche, come nell’incontro con le scuole, è la particolare malvagità e stupidità delle mine antipersona. «Dopo che la prima mina esplode in un campo – osserva l’ingegnere – questo viene considerato “bruciato” in gergo militare. A quel punto, si apre un varco e le truppe passano. Le mine che rimangono ai lati del varco vengono spesso “lasciate in regalo ai civili”, continuando a rappresentare una minaccia letale anche dopo la fine dei combattimenti».

Il vero problema degli armamenti secondo Fontana consiste nella “spersonalizzazione” del processo, per cui chi produce armamenti viene indotto a non porsi il problema del loro utilizzo, ma solo a guardare alle performance dello strumento sempre più sofisticato. Un meccanismo che viene rafforzato dai ricorrenti Expo organizzati dal complesso militar industriale dove, di fatto, si mostra “come si può ammazzare un nemico” in un contesto dove si finisce per normalizzare e glorificare la violenza in nome di un sistema che genera enormi profitti offrendo alle persone l’illusione di appartenere a una “sfera” di potere e di successo.

Una seduzione che Vito Alfieri Fontana ha conosciuto da vicino ma che ha rifiutato visceralmente. La storia concreta di un italiano che merita di essere preso ad esempio da un Paese che nella Costituzione ha scritto di aver ripudiato la guerra.

Papa Francesco ha chiesto all’ex produttore di armi barese di intervenire nel dicembre 2024 alla presentazione del messaggio per la giornata della pace 2025 intitolato “Rimetti a noi i nostri debiti, concedici la tua pace”.

«La grande guerra d’Oriente – ha detto Fontana – ora richiede la posa di campi minati che avranno poco effetto da un punto di vista militare, ma rappresenteranno una futura vendetta per chi cercherà di ritornare nelle proprie case o cercherà di occupare quelle abbandonate da chi è scappato».

In 15 anni da sminatore, solo poche volte gli è capitato di ricevere, assieme ai colleghi, un messaggio di ringraziamento: «Chi è toccato dalla guerra o da qualsiasi altra disgrazia che gli ha devastato la vita, intendendo terra, lavoro, famiglia non pensa di ricevere un aiuto anche se fraterno, ma pretende invece un risarcimento per il dolore inutile dal quale è stato schiacciato».

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