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Città senza famiglie

di Elena Granata

In molte grandi capitali del mondo, il fenomeno è noto da tempo. In Italia, invece, è recente e ancora poco osservato: le città stanno diventando inospitali per le famiglie. Attirano giovani, lavoratori, studenti e imprenditori grazie alle numerose opportunità di lavoro e agli stimoli che offrono. Sono adatte anche alle coppie senza figli nei primi anni di convivenza, ma nel momento in cui una coppia decide di avere un figlio o due, la città inizia a starle stretta.

Il costo delle abitazioni e della vita diventa spesso insostenibile, i servizi per la prima infanzia non sempre sono accessibili e la distanza dai genitori e dalla famiglia d’origine si fa sentire. Quella qualità della vita che sembrava un vantaggio nella giovinezza diventa invece una complicazione per chi ha bambini piccoli. Il caso di Milano è emblematico: nell’ultimo anno, la città ha perso quasi 50 mila residenti, l’equivalente di una cittadina delle dimensioni di Lodi. Questo non significa che la popolazione urbana stia diminuendo in senso assoluto, ma che il continuo ricambio penalizza soprattutto i giovani nuclei familiari.

Gli ultimi dati anagrafici raccontano di una città di single: 1.417.600 residenti, 783 mila nuclei familiari di cui il 56,7% è composto da persone che vivono da sole, con un’età media di circa 48 anni. È in corso una metamorfosi profonda, una trasformazione che interessa anche altre città turistiche o a vocazione universitaria. Le famiglie vengono allontanate perché i centri urbani si stanno attrezzando per diventare sempre più attrattivi per turisti e residenti alto-spendenti. Si modellano sulle esigenze di persone di mezza età, ancora attive professionalmente, che vivono da sole. I supermercati di quartiere alzano i prezzi e raffinano l’offerta di prodotti alimentari, aumentano il numero di bar, ristoranti e take-away, così come i servizi per la persona, dai parrucchieri ai centri benessere.

Le conseguenze sociali di questa trasformazione richiederebbero politiche adeguate a sostegno delle famiglie e dei giovani. Tuttavia, in un contesto dominato da una cultura iperliberista, anche la politica locale sembra accettare l’idea che sia il mercato a determinare gli equilibri e che le persone debbano trovare soluzioni in autonomia. Il problema è loro! E così accade.

Le famiglie si spostano, si trasferiscono in provincia, comprano casa nella prima o nella seconda cintura urbana, oppure tornano nei loro paesi d’origine. Dobbiamo rassegnarci all’idea di città da vivere solo per una stagione della vita? Città che non si preoccupano più di mantenere attivi asili nido, scuole materne, parchi urbani e oratori perché non servono più? Le città medie e di provincia potrebbero sviluppare politiche su misura per le famiglie, attirando in modo intelligente giovani nuclei familiari? Come si può lavorare concretamente sulle reti familiari – nonni, figli, nipoti – per evitare vite faticose per i giovani e la solitudine degli anziani? 

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