Da appassionato di lunga data della Turchia (e di Istanbul in particolare), mi hanno particolarmente colpito alcune affermazioni di padre Claudio Monge, frate domenicano che vive da quasi 24 anni a Istanbul, dove dirige il Centro per il dialogo interculturale DoSt-I (Dominican Study Institute). Parole da lui espresse a margine del recente viaggio di Leone XIV, il primo viaggio apostolico di papa Prevost, a fine novembre in occasione dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, e raccolte in un’intervista apparsa su oasiscenter.eu il 9 dicembre scorso, a cura di Claudia Catanzaro e Claudio Fontana. Pur essendo padre Monge un teologo di notevole levatura, ciò che mi ha sollecitato e incuriosito è quanto afferma dell’emergere di una Chiesa cattolica turca a Istanbul, qualcosa che supera la concezione fino ad ora piuttosto diffusa di una Chiesa cattolica rivolta prevalentemente agli stranieri residenti.
Padre Monge sostiene in un passaggio-chiave dell’intervista: «Oggi la Chiesa cattolica latina in Turchia sta diventando sempre più “turca”: la lingua turca stessa diventa maggioritaria nelle nostre assemblee». E spiega: «Noi [cattolici in Turchia] non vogliamo essere costretti a scegliere tra essere cittadini o credenti: siamo cittadini e credenti. E questo è perfettamente compatibile con una visione laica dello Stato. In quest’ottica chiediamo di poter agire all’interno delle regole più o meno democratiche vigenti, esercitando, quando necessario, anche un’obiezione di coscienza. Questo è il percorso moderno della cittadinanza, non quello – ormai superato – dei millet ottomani». I millet, o qualcosa di molto simile da essi derivato, hanno rappresentato, anche ben oltre la loro abolizione alla fine dell’Impero Ottomano (nel 1922), la mentalità comune: sia nei governanti che tra la popolazione, e negli stessi credenti non musulmani. È d’altronde comprensibile, considerando che il sistema è rimasto in vigore per oltre 300 anni, dal XVII al XX secolo.
Cos’erano i millet? Con questo termine (che in turco significa nazione) si indicavano le comunità religiose non musulmane residenti nel territorio dell’Impero Ottomano, ma anche e insieme, il governo amministrativo di tali comunità. Per le maggiori comunità-nazioni era istituito un millet. In particolare, i cristiani e gli ebrei godevano di uno status definito dhimmi (protetti), e una volta che il capo religioso di un millet aveva ricevuto dal Sultano conferma dell’investitura, diventava anche capo civile: curava la riscossione delle tasse e amministrava la giustizia nell’ambito del diritto di famiglia e del diritto civile, e rappresentava la propria comunità davanti al sultano e alla sua amministrazione. Insomma i membri dei millet non erano cittadini a pieno titolo, ma neppure perseguitati. Direi una sorta di ghetto in versione turca, in senso tutt’altro che negativo. Tutto questo finì drammaticamente con la durissima frattura, politica e ideologica, costituita dal genocidio di 3 milioni di armeni (1915-1923) e con l’esodo-scambio di 2 milioni di greci e turchi del 1923.

Papa Leone XIV e il Patriarca Bartolomeo I impartiscono una benedizione ecumenica dal balcone della Chiesa Patriarcale di San Giorgio dopo la Divina Liturgia a Istanbul (30 novembre 2025). Prima visita apostolica fuori dall’Italia. Credit: EPA/TOLGA BOZOGLU/ANSA.
Continua padre Monge nell’intervista di Oasiscenter: «I cattolici latini storici, noti come levantini, pur essendo nati spesso e volentieri in Turchia, rivendicavano la loro non-“turchità”. Molti dei nostri catecumeni attuali sono turchi e culturalmente turchi, che arrivano alle porte delle nostre comunità spesso dopo aver intrapreso un lungo cammino di ricerca spirituale…A differenza di 20 anni fa, non lo fanno come passe-partout per approdare più facilmente in Occidente». Ma padre Monge va anche oltre e sostiene che l’immagine pubblica dei cristiani in Turchia è cambiata con il recente viaggio di papa Leone. «L’evento simbolico più forte è stata la messa nella Volkswagen Arena di Istanbul, trasmessa in diretta da TRT World», la principale Tv turca. «Per la prima volta è stata data al Paese un’immagine dei cristiani gioiosa, pubblica e non ghettizzata. Non chiusi negli spazi riservati delle loro chiese, ma convenuti in un luogo pubblico, normalmente destinato a concerti e sport, trasformato per un giorno in spazio di preghiera. L’impatto è stato positivo, perché anche i non-cristiani turchi hanno potuto riconoscervi qualcosa della ricchezza della loro terra».