Calcare le scene per conoscere la gente

Intervista all'attore Alessio Boni: il teatro è la mia passione più grande    
Alessio Boni
Alessio Boni, attore di teatro, cinema e televisione è uno degli artisti più amati dal nostro pubblico. Riportiamo l’intervista che ha voluto rilasciarci al termine della sua lunga tournée teatrale che lo ha visto protagonista, con Alessandro Haber e Gigio Alberti, in Art, dell’autrice francese Yasmina Reza. 

 

Lo scorso anno ti abbiamo visto a teatro in Dio della Carneficina della Reza. In questo stagione sei ritornato ad un testo della Reza, “Art”, una commedia collaudata da un successo internazionale. Perché?

«Penso che Yasmina Reza sia una delle più interessanti autrici di teatro del nostro tempo, sia per la profondità dei contenuti che per la rappresentazione scenica che si basa essenzialmente sulla potenza della parola, una parola mai volgare o ammiccante, ma sempre capace di indurre una riflessione, un pensiero, anche quando si ride».

 

Cosa in particolare ti ha spinto a lavorare su questo nuovo testo?

«Sono stato colpito dal modo in cui la Reza affronta due temi importanti e per certi versi vitali del nostro vivere: l’amicizia e la continua provocazione dell’arte all’interno della società. L’amicizia è uno dei sentimenti più belli che lega le persone, ma non sempre essa è vissuta con autenticità e spesso interessi intellettuali, formalismi, categorie di subordinazione si nascondono dietro apparenze di condivisioni. Nell’amicizia occorre una profonda onestà intellettuale, una stima reciproca, l’accettazione piena della diversità dell’altro. L’amico lo si sceglie, nella verità, senza finzioni o meschinità. Il testo Art della Reza smaschera le ipocrisie e ci porta a comprendere che non può esserci amicizia vera senza la forza della verità, che non va mai taciuta, anche se essa fa male. Se in un rapporto di amicizia non si ha il coraggio di parlarsi senza finzioni, quel rapporto prima o poi crollerà impietosamente e farà ancora più male».

 

Come dicevi, il testo tocca anche un altro tema: la provocazione dell’arte.

«La commedia inizio proprio nel momento in cui Serge, il personaggio da me interpretato, acquista una tela da un autore contemporaneo di fama dipinta solo col bianco, pagandola moltissimo, e la mostra ai due più cari amici: Marc il mèntore del trio e Yvan afflitto da problemi esistenziali. In realtà questi due amici reagiranno in maniera diversa, ma con un giudizio sostanzialmente negativo sulla scelta di Serge. Sappiamo che l’arte ha sempre provocato e ci sono voluti secoli perché alcuni innovatori diventassero classici, Prendiamo Van Gogh, in vita non ha venduto un quadro. Quella sua pittura spiazzava e provocava. In realtà l’uomo è spesso sulla difensiva davanti al nuovo, ma la vera arte, espressione dell’animo dell’ artista, opera un salto, rompe il già precostituito, lascia intravedere sempre la perenne novità della vita che non può essere mai rinchiusa in schemi rigidi. Nella commedia il quadro bianco di Serge scatena una serie di giudizi e pregiudizi sui loro rapporti a tal punto da mettere in discussione un’amicizia che sembrava collaudata. Le strade che si aprono davanti ai tre amici sono due: la rottura insanabile o il convergere verso un’unità più profonda che accolga le diversità e le valorizzi nel rispetto vero di ciascuno».

 

Quale è la motivazione profonda che ti sollecita continuamente alla fatica e all’impegno del teatro, nonostante il successo televisivo e nel cinema?

«Il teatro è la mia passione. Sono nato come attore di teatro. Infatti dopo i quattro anni di Accademia, per sette anni ho fatto solo teatro. Mi piace questo lavorare sul testo, comprenderlo, farlo mio…Ci lavori per due mesi poi entri nel personaggio e percorri i suoi passaggi così come l’autore suggerisce, ma ai quali tu devi aderire con la tua sensibilità, i tuoi sentimenti, la tua voce, lo sguardo, i movimenti. E infine sali sul palcoscenico e ti cimenti cercando il rapporto con il pubblico, perché stai lì per quel pubblico, ed è questo rapporto col pubblico un’esperienza straordinaria irripetibile, sempre nuova, perché sempre nuova è la platea, che ti esalta e ti stimola a dare il meglio di te stesso. Ma è anche un termometro di cosa sia la nazione oggi, perché nonostante tutto incontri l’umanità con le sue pulsioni, le sue criticità, il suo entusiasmo, le sue sconfitte e mentre tu reciti, entri in dialogo profondo con questa umanità ed avverti la sua reazione, in quanto si crea un rapporto intimissimo, un’atmosfera tutta particolare che induce sempre una riflessione nuova sull’uomo e sulla vita».

 

Ma anche un film dotato di una buona sceneggiatura può offrire riflessioni sentimenti, valori di questo tipo.

«Certamente, ma per l’attore è molto diverso il modo di interpretare un testo teatrale. Nel teatro una volta impostata la scenografia, la musica, il testo è la linfa vitale che prende ogni elemento dello spettacolo e lo trascina con sé: l’attore è solo col suo testo e sviluppa il tema progressivamente, così come in una partitura musicale, per cui solo alla fine riesci a dare di esso il senso compiuto in quella determinata unità di tempo. Non così nel cinema o nella televisione dove l’attore è una pedina nelle mani del regista».

 

Pur nella drammaticità del testo c’è molta ironia in questo tuo ultimo lavoro.

«Mi sembra una caratteristica della Reza che, senza mai cadere nella volgarità o nelle allusioni sessuali, quasi con leggerezza, entra nella complessità dei rapporti umani e, con una buona dose di satira, smaschera le contraddizioni per sanarle o annullarle. Alla fine si resta pensosi e il pubblico si pone qualche domanda. Quando il teatro, pur divertendo, lascia qualche riflessione sulla vita e sui rapporti vuol dire che è entrato nella dimensione interiore dello spettatore e certamente gli ha lasciato qualcosa che prima o poi porterà i suoi frutti».

 

Ti condiziona una critica non favorevole?

«Per niente. Sarei però ipocrita se dicessi che una buona critica non mi fa piacere. Ma quello che mi stimola di più e che mi interessa è il rapporto con il pubblico, incontrarlo dopo lo spettacolo, sentire dal vivo le reazioni degli spettatori, riflettere su quanto hanno colto o non capito. Quando recito capto “il respiro” del pubblico presente in sala, la sua partecipazione, il suo coinvolgimento, e se non riesco a sentire tutto questo allora sì che devo mettermi in discussione. Senza questo rapporto il mio lavoro non è teatro, ma puro esercizio e tecnicismo sterile. È in questo rapporto che io incontro la dimensione culturale della mia gente ed allora nasce un’osmosi che arricchisce me e lo spettatore e il teatro, in questa sorta di reciprocità, diventa esperienza costruttiva dell’uomo».

 

Il teatro generalmente ha un pubblico di una certa età e difficilmente vedi giovani. Ma la critica resta sempre sorpresa nel vedere molti giovani in platea per i tuoi spettacoli. Penso che questo ti gratifichi.

«Moltissimo, anche perché nello scegliere i testi da rappresentare io non trascuro i giovani, che sono il nostro futuro, per cui ho davanti a me un percorso ideale attraverso il quale voglio offrire loro strumenti culturali capaci di annullare quelle violente suggestioni di certi squallidi programmi televisivi. Per questo, se posso usare una parola impegnativa, direi che faccio scelte propedeutiche, in modo da portare il pubblico che mi segue a scoprire piano piano quelle grandi potenzialità che sono in ognuno di noi, per poi metterle in campo nella vita di ogni giorno».

 

 

 

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