Qualche giorno fa ho ricevuto una mail dall’università in cui lavoro: “Notifica collocazione di persona in spazio”. Leggendo, ho scoperto di essere stata “disassociata” da un vano, non semplicemente spostata in un’altra stanza. Un semplice cambio di chiavi e di numero di telefono si è trasformato in un elaborato processo burocratico. La stanza è diventata un vano e la mia attività di docente qualcosa da associare o disassociare a uno spazio.
Trovo ironico che un’università, che si occupa di architettura e benessere degli spazi, utilizzi un linguaggio così asettico e complicato per descrivere qualcosa di ordinario. Tuttavia, questa non è un’eccezione, ma un riflesso di come il linguaggio nella nostra vita collettiva stia diventando sempre più tecnico, procedurale e inutilmente complesso. Pensate all’oste che, in un ristorante vuoto, vi chiede puntigliosamente se avete prenotato, o alle carte da firmare per qualsiasi pratica civile, o ai numerosi codici che dobbiamo conservare per accedere ai servizi.
Viviamo immersi in un’infinità di azioni burocratiche che sembrano moltiplicarsi senza sosta. Medici e insegnanti si lamentano del tempo speso a compilare moduli, fornire dati e spuntare caselle, anziché dedicarsi ai loro compiti principali. Nella pubblica amministrazione, la digitalizzazione sembra (talvolta) aggiungere livelli di complessità invece di semplificare. Ogni nuova piattaforma o procedura richiede dichiarazioni, autodichiarazioni e protocolli sempre più dettagliati. Anche nel mondo accademico semplici operazioni quotidiane vengono rivestite di un linguaggio pseudo-gestionale che, spesso, sfiora il ridicolo. Questo fenomeno ci fa perdere di vista l’essenziale, trasformando azioni semplici in complessi rituali amministrativi.
La dichiarazione dei redditi, l’ISEE, una gara pubblica, l’assunzione di un dipendente, la rescissione di un contratto fatto sul web (magari a condizioni poco chiare al momento della stipula), l’organizzazione di una gita scolastica: gli esempi sono infiniti e si sa quanto tempo e pazienza richiedano queste pratiche. Ovviamente, questo eccesso di burocratismo si riflette nelle relazioni umane, nelle pratiche terapeutiche, nell’organizzazione aziendale, nella didattica. Non solo non riduce tempi morti e attese, ma impoverisce le dinamiche sociali.
In attesa di una rivoluzione burocratica, possiamo attivarci con piccole e grandi pratiche di resistenza. Per esempio, ho fatto presente con ironia ai miei uffici che non ero un pacco e che non intendevo disassociarmi da nulla. La risposta mi ha confortato: «La comunicazione va in automatico, ma farò tesoro di questa tua osservazione. Mi assicurerò di anticipare l’avviso di “disassociazione” con una mail personale, per mantenere una comunicazione più empatica». L’intenzione è buona – in attesa di tornare a linguaggi più umani – meglio due mail di una con linguaggio distopico!