Bisogna agire prima che torni il silenzio

Giorni cruciali per il destino della città dove sorge il più grande impianto siderurgico d’Europa. Intervista ad Alessandro Marescotti di Peacelink
ilva di taranto

Alessandro Marescotti è un nome molto conosciuto nella rete italiana dei movimenti ecopacifisti. Da un suo esposto del 2008 alla magistratura di Taranto è partita l’inchiesta che ha portato al sequestro degli impianti dell’Ilva. È il referente di Peacelink, associazione molto attiva di “volontariato dell’informazione” che mira ad offrire «un’alternativa ai messaggi proposti dai grandi gruppi editoriali e televisivi» per dare voce a chi non ha voce. Evidente l'ispirazione alla testimonianza di don Tonino Bello con il suo invito «a usare ogni mezzo non-violento per giungere ovunque ed essere presenti con un'azione di pace e una testimonianza di impegno umano» proprio per il legame forte che esiste tra informazione, potere e democrazia. Impegno che produce risultati anche nel campo educativo visto che i ragazzi del liceo scientifico tecnologico della città pugliese dove Marescotti insegna hanno vinto quest'anno il primo premio del concorso indetto dal Senato della Repubblica per il miglior progetto di legge: un testo sulla certificazione dei prodotti alimentari ”liberi dalla diossina”. La sostanza inquinante, presente assieme a tante altre a Taranto, che riempie le cronache dai tempi della guerra del Vietnam, con il famoso agente arancione, fino ai disastri ambientali come quello di Seveso, in Brianza, nel 1976. 

Le immagini di tanta gente scesa in piazza il 5 ottobre per la manifestazione promossa, anche da Peacelink, per sostenere l'operato dei giudici a difesa della salute della cittadinanza mostra qualcosa di nuovo dentro una realtà che resta complessa.  
La grande partecipazione alla manifestazione del 5 ottobre mostra un risveglio della società tarantina di fronte da una situazione conosciuta da sempre e che Peacelink ha denunciato quasi da sola. Da quando operate e come avete fatto a perseverare in questi anni?
«Siamo nati nel 1991 come rete telematica e come realtà associativa nel 1995. Ci etichettano come ambientalisti ma noi riteniamo più corretto partire dal principio della difesa della salute e della vita. Un principio che appartiene a tutti coloro che hanno a cuore il bene comune». 
 
Come avete vissuto questo lungo periodo di solitudine nel denunciare una situazione che era evidente a tutti, di fronte ad un atteggiamento che sembra di arrendevolezza di fronte a un'azienda che porta lavoro al Sud ?
«A mio giudizio questa profonda solitudine si spiega con un sistema di potere che ha protetto chi inquinava, usando con grande competenza le leggi vigenti, in tutti i modi. Abbiamo avuto l’impressione di avere davanti a noi un muro di gomma, con la totale inespugnabilità di determinati interessi grazie a leggi formulate in modo tale da mantenere alti i livelli di inquinamento, grazie a diverse autorizzazioni che sono state concesse in maniera tale da consentire le emissioni dell’Ilva. È stato difficile trovare il punto da cui scardinare un sistema molto protetto che consentiva di inquinare senza violare la legge. Era difficilissimo trovare un limite di legge sforato. Ad esempio era difficile denunciare la presenza di diossina nelle emissioni dei camini visto che l’Ilva aveva un margine di tolleranza elevatissimo, pari a 10 mila nanogrammi per metro cubo: un limite che non poteva essere sforato anche inquinando a più non posso E tanti parametri ambientali sembravano fatti apposta per evitare che chi inquinava fosse perseguibile dalla legge. Si vedevano i fumi e il loro effetto impattante, ma sembrava che il sistema fosse inattaccabile e invulnerabile e invece abbiamo scoperto il suo punto vulnerabile, il suo tallone d’Achille». 
 
Quale ? 
«La vera svolta è avvenuta quando abbiamo potuto dimostrare lo sforamento dei limiti europei relativamente ad alcuni prodotti alimentari: l’Europa non consente che un formaggio di Taranto o le cozze del Mar Piccolo arrivino sulle tavole dei consumatori del continente e quindi le norme sulla sicurezza alimentare sono severe. Pcb (policlorobifenili) e diossine – nel campione di pecorino fatto analizzare da noi – superavano di tre volte i limiti di legge europei. Da questo punto in poi è stato possibile indagare per capire le cause della contaminazione della catena alimentare per arrivare agli impianti inquinanti ora all’attenzione della magistratura. Il resto lo ha fatto la Procura che ha ordinato un’indagine epidemiologica con metodologie mai utilizzate fino ad allora in loco e che hanno evidenziato un eccesso di mortalità a Taranto dovuto a tante cause. Quando si tocca la salute cambia del tutto la prospettiva. Possono essere in vigore norme permissive per chi inquina, ma se si registra un eccesso di mortalità entra in campo il principio di precauzione. La presenza di un reato e di un pericolo obbliga la magistratura ad intervenire così come accade davanti ad una frana: si possono avere tutte le autorizzazioni per i palazzi, ma se esiste il pericolo di crollo vanno comunque evacuati» 
 
L’azione della magistratura è stata quindi determinante davanti al danno alla salute riscontrato nella popolazione, eppure l’ex prefetto Ferrante, ora presidente dell’Ilva, afferma pubblicamente che esistono più casi di tumore a Lecce che a Taranto…
«A Lecce esiste un’alta mortalità per tumori che però non è superiore a quella di Taranto. È paragonabile, solo che, come afferma il professor Assennato, direttore dell'Arpa Puglia e noto epidemiologo, in quella città, a differenza di Taranto, non conosciamo la causa del fenomeno. Proprio perché a Taranto conosciamo le fonti di inquinamento che provocano malattie abbiamo l’obbligo e l’urgenza di intervenire. Non ha senso fare paragoni con Lecce, dove invece bisogna indagare sulle cause di un fenomeno che probabilmente non ha origine dall’inquinamento industriale, ma, secondo alcuni, dalla presenza del gas radon nel terreno e quindi nelle abitazioni. A Taranto abbiamo un’abbondanza di studi che certificano l’aumento della mortalità con l’avvicinarsi agli stabilimenti  industriali e quindi bisogna intervenire subito» 
 
Come reti associative avete fatto proposte di bonifica e riconversione del territorio citando casi esteri come quello di Pittsburgh negli Usa. Ma chi dovrebbe sostenere la spesa di tali interventi? 
«La bonifica la deve pagare chi ha inquinato. E questo secondo l’articolo 1 della direttiva europea 35 del 2004 recepita nel codice italiano dell’ambiente. Non può essere un costo che si scarica sulla collettività se il danno è stato provocato da dei privati». 
 
Ma l'Italsider è stata fino al 1995 in mano allo Stato, che l’ha venduta ad un prezzo ritenuto molto conveniente, secondo alcuni commentatori. 
«Certo, la responsabilità è estesa a tutti coloro che hanno provocato il danno all’ambiente e alla salute. Se l’Ilva ha acquistato un impianto inquinante aveva l’obbligo di segnalare l’anomalia subito e non dopo oltre 10 anni, ma questo è un problema che riguarderà i legali delle due parti. Per quanto riguarda la possibilità della riconversione del territorio abbiamo il caso del bacino della Ruhr in Germania che era un'area molto più grande e più inquinata di Taranto. Con la bonifica e una riqualificazione paesaggistica adeguata si è completamente trasformata ed è divenuta una delle località tedesche più attraenti. L’importante è il progetto di rilancio che segue la bonifica. Ma è in tutta l’Europa che possiamo notare come le aree più belle siano quelle appartenenti a zone industriali dismesse, recuperate e riqualificate. A Oslo come a Barcellona. Proprio ciò che era più compromesso e “sporco”, come ad esempio le aree portuali, è stato risanato in maniera radicale. Sono investimenti e non dei costi. Anche perché se non si interviene subito la falda idrica profonda diventa sempre più compromessa, con danni che rischiano di diventare irreparabili. Purtroppo i governi che si sono succeduti non hanno operato finora con una visione di prospettiva: hanno cioè ignorato cosa potrà accadere tra 10 o 20 anni. Adesso siamo ancora in tempo per evitare effetti devastanti e mettere in sicurezza la falda dell’acqua che scorre sotto l’Ilva. Un’operazione che, secondo la conferenza dei servizi avvenuta al ministero dell’ambiente nel 2011, andava fatta “ad horas” (in brevissimo tempo). A questo primo provvedimento si accompagna la necessità di intervenire in un’area di territorio di 20 km intorno allo stabilimento che resta contaminata da diossina e pcb». 
 
Ma secondo molti osservatori bisogna fare attenzione a tirare troppo la corda per evitare che la proprietà dell’Ilva sia indotta ad andare via perché, in tal modo, nessuno pagherebbe la bonifica e rimarrebbe solo un territorio ancora inquinato ma senza più lavoro, Cosa ne pensa ? 
«A Taranto ormai la popolazione è quasi del tutto determinata a non sopportare più un tale impianto. Ma c’è un aspetto da tener presente. A Taranto i terreni dell’Ilva sono proprietà della famiglia Riva. Non si tratta di una concessione demaniale destinata a terminare. Si tratta quindi di beni confiscabili che mantengono un valore elevato in ragione di una bonifica possibile. In caso di condanna per inadempienza, l’azienda avrebbe dei danni patrimoniali ingenti. Noi dobbiamo stare attenti a rimanere dentro parametri europei perché vale il principio che chi ha inquinato deve risarcire il danno. Lo stesso decreto del governo per Taranto che stabilisce dei fondi per la bonifica del sito senza indicare le responsabilità dirette è criticato a livello europeo perché lo Stato può intervenire con fondi propri, ma ciò avviene a titolo di anticipazioni, tranne nel caso di responsabilità diretta nel periodo Italsider. Ad ogni modo non si può arrivare a provocare gravi danni ad un territorio fino a contaminare la catena alimentare senza indicare alcuna responsabilità».
 
In questi casi è stata decisiva, per voi, la sentenza di Torino sul caso Eternit che ha individuato la figura del disastro permanente?
«Certo».
 
Ma se si chiude l’Ilva, che faranno i lavoratori prima di una bonifica ipotetica ? 
«Sono lavoratori che vanno risarciti con la garanzia del lavoro attraverso investimenti nell'economia pulita, la cosiddetta green economy. Ad esempio nell’area a caldo dell’attuale stabilimento ci sarebbe la possibilità di costruire una centrale solare del tipo proposto dal premio Nobel Rubbia, che sarebbe in grado di produrre energia quanto una centrale nucleare. Le tecnologie per produrre energie alternative hanno bisogno di grandi spazi e, allo steso tempo, la stessa bonifica ha bisogno di un numero significativo di maestranze. In tal modo si potrà recuperare tutta la filiera agricola e zootecnica che ha visto, finora, la perdita di un gran numero di posti di lavoro. Sono lavori enormi ma necessari per far rinascere la città altrimenti il suo destino sarà di svuotarsi e perire. Prima di pensare ai costi della bonifica, pensiamo alle perdite conseguenti alla morte di un intero territorio come Chernobyl. Anche la Ruhr poteva diventare un cimitero» 
 
Ma come si può fare un discorso del genere ad un operaio che ha il mutuo da pagare e deve dare da mangiare ai figli e non vede un soggetto politico capace di promuovere un tale intervento strutturale ? 
«Bisogna considerare il tempo attuale, in tutta la sua tragicità, come l’ultima occasione propizia che ci rimane perché Taranto è finalmente entrata nell’agenda del governo e nell’attenzione nazionale dopo un lungo periodo in cui è restata nel cono d’ombra. Adesso dobbiamo insistere per fare le bonifiche e chiedere investimenti per far risorgere la città altrimenti tra qualche anno assisteremo alla fine della siderurgia stretta per la competizione asiatica e allora Taranto annegherà con tutte le altre realtà connesse senza offrire alcuna prospettiva ai lavoratori. Ora abbiamo ancora i fondi strutturali europei da cui possiamo attingere ed esiste una responsabilità accertata da una magistratura che va fino in fondo. L’arte del rimandare seguita da molta politica non è più possibile». 

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