Bellezza e stupore

Perchè non possiamo delegare alle macchine la variabilità culturale
(AP Photo/Andreea Alexandru)

Articoli, convegni, libri, festival: se c’è un argomento di moda in questi tempi, è l’Intelligenza artificiale (IA). Magari il lettore si sarà anche stancato di sentirne parlare, incerto se temere questa novità (meno posti di lavoro, più controllo della popolazione) o sperare in un miglioramento della qualità della vita proprio grazie alle macchine intelligenti.

Eppure c’è ancora tanto da scoprire in questo campo. Sviluppare l’intelligenza artificiale, infatti, ci stimola a riflettere su chi siamo noi umani, quali sono le nostre caratteristiche uniche, i valori di fondo a cui non possiamo rinunciare. L’IA ci chiede di stabilire quale futuro vogliamo, quali cambiamenti possiamo accettare nel nostro linguaggio, nei nostri rapporti, nella nostra visione della vita. Non sono esagerazioni: lo dimostra un piccolo ma intrigante libretto che tratta un argomento apparentemente estraneo al tema: la bellezza. Il titolo è: L’estetica dell’Intelligenza artificiale (Lev Manovich – Luca Sossella editore, 2020).

L’autore inquadra subito il problema: avete notato come siamo improvvisamente diventati tutti bravi a fare foto e video coi cellulari? Non ci sono più immagini mosse o sfuocate, i panorami sono brillanti, la luce perfetta. Tutto è diventato semplice, ma anche piatto: le foto fatte da un coreano, un italiano o un argentino sono simili. Dipende dal fatto che il nostro cervello è “plastico”: significa che è meravigliosamente creativo, ma anche condannato a perdere le abilità che non usa. Una volta per fotografare bene bisognava studiare, prepararsi, avere gusto. Ora non serve più: ci pensano gli algoritmi, cioè i programmi di IA. Ci suggeriscono cosa e come fotografare, quali video guardare e quale musica ascoltare, quali “amici” seguire sui social, come abbellire i nostri selfie, come rispondere alle mail, come controllare i personaggi dei videogiochi. Una tirannia dolce, continua, impercettibile.

Moltiplicato per miliardi di persone, significa che l’IA «influenza l’immaginazione collettiva dell’umanità», orientando gusti, scelte e comportamenti «verso le opzioni preferite dalla maggioranza»… o decise da chi scrive gli algoritmi. Ricordiamoci infatti che l’IA può essere “addestrata” ad «offrirci la foto più adatta a rientrare in un certo concetto o ideale estetico». Ma chi decide cosa è “bello”?

Manovich si chiede che fine faranno parole come cultura, anzi culture, e gusto. Se la creazione estetica verrà (tutta o in parte) automatizzata, serviranno ancora registi, artisti, compositori e musicisti? Google sta definendo un sistema per emulare le competenze di un fotografo professionista. Altre piattaforme mettono a punto metodi automatici per la composizione di brani musicali. Instagram seleziona sempre gli stessi stili di immagini o di video, e li mostra a miliardi di persone. Diminuirà «l’esperienza della diversità»?

Vedere, ascoltare, leggere, scrivere, indossare, comunicare. Tutto sta cambiando. Il mondo sembra diventare un unico villaggio globale. Monotono. Eppure, «le stesse tendenze potrebbero anche accrescere la diversità, in quanto precisi DNA culturali locali diventano disponibili globalmente». Dunque, il futuro non è già scritto. Sia perché la nuova cultura digitale globale ha bisogno di nuovi concetti, e la diversità (di contenuti e di scelte degli utenti) potrebbe essere uno di questi; sia, soprattutto, perché «il computer non è davvero in grado di capire ciò che sta selezionando ed editando».

panorama stupore

Ma se il computer non capisce quello che fa, vuol dire che non potrà mai “stupirsi” davanti alla bellezza. Al massimo può “simulare” di farlo. Solo noi umani siamo capaci di stupore e bellezza. Si chiede allora Manovich: «Se tutto il lavoro creativo e di conoscenza fosse dominato dall’IA, cosa rimarrebbe agli umani? Quale sarebbe lo scopo della nostra esistenza?».

Bella domanda. La bellezza e la capacità di stupirci non sono un optional, sono parte decisiva del nostro essere donne e uomini. Non possiamo delegarle alle macchine. Quindi, se la rivoluzione dell’IA non si può fermare, e l’alleanza uomo-macchina è inevitabile, dobbiamo attrezzarci per gestirla e indirizzarla bene. Manovich ci sollecita a «comprendere i principi basilari delle tecniche dell’IA nella cultura odierna». A questo aggiungerei un consiglio più generale: il cardinale John Henry Newman raccontava che san Filippo Neri «preferiva cedere al flusso e dirigere la corrente che non poteva fermare […], addolcendo e santificando ciò che Dio aveva creato molto buono e che l’uomo aveva guastato».

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons