Attentato Adinolfi, è terrorismo?

Tutto fa pensare alla pista terroristica, ma non ci sono conferme. Il manager dell'Ansaldo nucleare difeso da operai e sindacati
Attentato a Roberto Adinolfi

Il 7 maggio, sulle colline residenziali di Genova, in via Montello 14, quando da poco erano passate le 8.00 del mattino, Roberto Adinolfi, manager dell’Ansaldo Nucleare, azienda di proprietà Finmeccanica, è rimasto vittima di un attentato: tre colpi di pistola alle gambe (solo uno a segno), con una tecnica tipica della stagione terroristica anni Settanta, ferire in modo doloroso e umiliante, ma senza togliere la vita.

 

Sui mass media abbondano le ricostruzioni che hanno visto in passato il capoluogo ligure al centro delle attività di gruppi eversivi, nonché il protagonismo di una delle prime colonne delle Brigate Rosse, attive tra il resto proprio verso altri importanti dirigenti dell’Ansaldo: Casabona (1975), Castellano (1977), Bonzani (1979).

 

Si parla di matrice terroristica e le indagini si stanno muovendo prima di tutto in questa direzione, con segnali che sembrano riportare indietro nel tempo: il bossolo recuperato della pistola che ha sparato, una Tokarev calibro 7,62, riferimento agli arsenali sovietici ai quali i brigatisti hanno attinto con continuità; la preparazione meticolosa del colpo, frutto di appostamenti e perfetta conoscenza delle abitudini della vittima; lo scooter sul quale i due attentatori si sono dati alla fuga, rubato alcuni mesi fa e riapparso sulla scena del crimine prima di essere abbandonato qualche isolato più avanti.

 

Manca la rivendicazione del gesto, l’affermazione delle motivazioni che hanno indotto gli attentatori a scegliere un bersaglio facile, l’onesto lavoratore stimato da tutti, di un’azienda sufficientemente florida in tempo di crisi e non interessata dalla catena di ristrutturazioni e adeguamenti del personale che avrebbero potuto far pensare a una possibile sponda negli operai della fabbrica, quelli che una volta venivano chiamati “fiancheggiatori”, perché fornivano informazioni e movente per gli attentati.

 

Nel silenzio gonfio di attesa, per gli inquirenti e le istituzioni è significativo che a parlare siano stati prima di tutto gli operai dell’azienda e i centri sindacali, che unitariamente hanno condannato il gesto e si sono stretti attorno all’amministrazione. Del resto appare importante favorire la coesione sociale, lo spirito unitario di fronte alla possibilità che nel Paese ci siano ancora gruppi eversivi pronti a sfruttare la stagione di crisi per riaffermare, attraverso la violenza, la bontà di un cambio di direzione ideologico-politica ed economica.

 

Oggi si ricordano le vittime del terrorismo. Verso quel senso di coesione bisogna incanalare le migliori forze e le più ottimistiche prospettive, proprio perché in periodi difficili ciò che viene messo in discussione è il senso della costruzione comune e della reciprocità che consolida la comunità locale e nazionale.

 

E quanto non sia banale la ricorrenza di oggi, in un Paese come l’Italia che ancora non è riuscita a guardare con onestà e trasparenza alla drammatica stagione terroristica e stragista, lo dicono le parole espresse da Sabina Rossa, figlia del metalmeccanico Guido che nel 1979 trovò la morte in fabbrica per aver denunciato l’infiltrazione dei gruppi eversivi: «La vicenda del terrorismo è stata lasciata troppo in mano a carnefici, vittime e giudici. Mentre tutta la società dovrebbe occuparsene. Per rompere il muro di omertà trasversale di allora. E per trasmettere alle nuove generazioni il ricordo di quegli orrori».

 

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