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Astrazeneca, cosa sappiamo del vaccino e delle sue indicazioni d’uso

di Spartaco Mencaroni

- Fonte: Città Nuova

Una piccola “carta di identità” del prodotto vaccinale di Astrazeneca, chiamato Vaxzevria. I rischi di trombosi.

Iniziamo con qualche appunto per seguire meglio la vicenda: ecco una piccola “carta di identità” del prodotto vaccinale di Astrazeneca:

– Tipologia di vaccino: Vaccino a m-RNA che induce la produzione della proteina S del SARS-COV-2, veicolato da vettore virale (Adenovirus di scimpanzé modificato, non in grado di replicarsi).

– Modalità di somministrazione: due iniezioni, solitamente nel muscolo della parte superiore del braccio (regione deltoidea), a distanza di almeno 4-12 settimane l’una dall’altra.

– Modalità di conservazione: in frigorifero a una temperatura compresa tra 2°C e 8°C; non va congelato.

Riguardo alle indicazioni d’uso, il vaccino è stato inizialmente approvato per l’uso fra i 18 e i 55 anni di età (per limitate evidenze di efficacia nelle fasce più anziane); l’indicazione è stata successivamente estesa a tutta la popolazione al di sopra dei 18 anni.

A seguito del riscontro di eventi avversi peculiari molto rari, ma più frequenti nei soggetti giovani, dal 7 aprile 2021 in Italia è stata emessa una indicazione preferenziale d’uso sopra i 60 anni, pur senza modificare le autorizzazioni d’uso.

Dal giorno 11 giugno 2021 il Ministero della Salute ha rafforzato tale indicazione e promosso un utilizzo esclusivo al di sopra dei 60 anni. Le stesse indicazioni sono applicate al vaccino (monodose) Jansen (cfr. circolare Ministro Salute 26246-11/06/2021)

La stessa circolare fornisce l’indicazione a concludere il ciclo vaccinale sotto i 60 anni con un vaccino a vettore lipidico (Comirnaty o Moderna) ed è stata seguita da una determina AIFA del 14/6/2021 che ammette l’utilizzo off-label dei due prodotti vaccinali per tale fine (inserimento nell’elenco dei farmaci di cui alla legge 648/1996 dei vaccini Comirnaty e Moderna come seconda dose per completare un ciclo vaccinale misto nei soggetti di età inferiore ai sessanta anni che abbiano già effettuato una prima dose di vaccino Vaxzevria).

Con successiva circolare (27471 del 18 giugno 2021) il Ministero della Salute ha riconosciuto che coloro i quali, «pur a fronte di documentata e accurata informazione fornita dal medico vaccinatore o dagli operatori del centro vaccinale sui rischi di VITT, rifiutino senza possibilità di convincimento, il crossing a vaccino a mRNA, dopo acquisizione di adeguato consenso informato, può essere somministrata la seconda dose di Vaxzevria. Tale opzione risulta coerente e bilanciata dal beneficio derivante dall’annullamento del rischio connesso alla parziale protezione conferita dalla somministrazione di una singola dose di Vaxzevria».

Rischio di VITT

La motivazione di queste modifiche d’uso è legata al rischio di insorgenza di eventi trombotici in sedi atipiche (trombosi dei seni venosi cerebrali e/o del distretto splancnico), associati a piastrinopenia e con decorsi clinici di particolare gravità.

Studi clinici recenti hanno messo in evidenza come in una bassissima percentuale di soggetti (da 1:100.000 a 1:1.000.000) vaccinati con vaccino anticovid 19 Vaxevria possono andare incontro ad una importante sintomatologia trombotica denominata trombocitopenia immune trombotica indotta dal vaccino (VITT).

Il rischio di questi eventi è maggiore nelle persone giovani, particolarmente di sesso femminile, e non sono note attualmente delle condizioni predisponenti o favorenti.

I dati che stanno emergendo, relativamente alla presentazione clinica e ai meccanismi che portano alla malattia, indicano la produzione di anticorpi associati a PF4/eparina, che inducono una coagulopatia in genere associata a piastrinopenia da consumo, e la presenza di altri complessi immunitari correlati all’attivazione piastrinica.

Questo meccanismo appare simile alla piastronopenia indotta da alcuni farmaci e/o componenti virali, e ciò potrebbe anche spiegare il fatto che le manifestazioni trombotiche si presentano in sedi “atipiche”, dove è più probabile che avvenga già una interazione con componenti virali presenti nell’ambiente esterno.

Poiché il rischio di questi eventi è maggiore negli stessi gruppi di popolazione nei quali è invece ridotto il rischio di gravi esiti di malattia da Sars-COV-2, il rapporto rischio/beneficio è stato rivisto, considerando anche le modifiche allo scenario epidemiologico che, in una fase di bassa circolazione virale, riducono ulteriormente la probabilità a priori di incorrere nei rischi di malattia. Di seguito il link ai documenti di valutazione del rischio ai grafici esplicativi, basati anche sui dati italiani.

Completamento della vaccinazione negli under 60: il “crossing” vaccinale

Il rischio di reazioni trombotiche insolite / gravi o letali è stimato nell’ordine di 1:100.000 / 1:1.000.000 di dosi somministrate, con un gradiente decrescente per età; in base ai meccanismi patogenetici proposti tale rischio dovrebbe essere molto più basso alla seconda dose, in quanto la produzione di anticorpi anti PTF4 si manifesta in genere al primo contatto con il vettore virale. Le stime provenienti dal Regno Unito indicano un tasso di 1,3 casi / 1.000.000 di seconde dosi, circa 10 volte inferiore a quello osservato alla prima dose, sempre con la stessa distribuzione di rischio inversamente proporzionale all’età; attualmente in Italia non sono noti casi di VITT alla seconda dose.

L’opzione di somministrare un altro vaccino a vettore lipidico si basa su un razionale biologico e immunologico, riassunto nel verbale 27 dell’11 giugno 2021 del CTS di AIFA; infatti i prodotti vaccinali in uso, sebbene utilizzino un vettore diverso, provocano tutti lo stesso tipo di risposta immunitaria e inducono le cellule umane a produrre la proteina S del Sars-COV-2. Tutti e tre i vaccini che prevedono una schedula vaccinale a due dosi introducono all’interno delle cellule un filamento di m-RNA che codifica per la proteina “S” e quindi ottengono una identica stimolazione del sistema immunitario. In sintesi, la cellula produce da sola una delle proteine virali principali (ma non è in grado di produrre virus completi e di conseguenza non può verificarsi alcuna infezione).

Il vaccino Jansen, per inciso, utilizza una tecnica leggermente diversa: le istruzioni per produrre la proteina “S” sono introdotte nel DNA di un Adenovirus geneticamente modificato e incapace di riprodursi.

In ogni caso, queste proteine “S” prodotte dalla cellula vengono esposte sulla sua superficie da molecole specializzate, che attirano l’attenzione di altre cellule specializzate del sistema immunitario, le quali fanno da tramite fra le cellule “infette” e i linfociti, ottenendo una risposta immunitaria completa e molto efficace, proprio perché sfrutta meccanismi identici a quelli che si verificano durante una infezione naturale.

Poiché il tipo di proteina prodotta con tutti i vaccini è esattamente la stessa, e i meccanismi di stimolazione cellulare sono sempre quelli, è possibile utilizzare due vettori diversi fra la prima e la seconda dose.

La valutazione di sicurezza ed efficacia di questa procedura (impropriamente chiamata “vaccinazione eterologa”) è confermata da una serie di studi risalenti alla fine di maggio, che indicano la capacità di questo approccio di indurre buona risposta anticorpale e un profilo di reattogenicità nel complesso accettabile e non dissimile da quello osservato somministrando due dosi dello stesso tipo di vaccino, come riportato nel parete tecnico di AIFA.

Perché allora consentire a chi lo vuole di fare la seconda dose di Vaxevria?

E veniamo all’ultimo capitolo di questa storia, ossia la circolare del 18 giugno 2021: questo documento anzitutto conferma la posizione espressa nei giorni precedenti, ossia che sia consigliabile, in base al rapporto rischio / beneficio noto e per un principio di massima precauzione, sotto i 60 anni, il cambio di prodotto vaccinale per la seconda dose di immunizzazione dopo Vaxevria.

Viene però specificato che, nel caso in cui un utente rifiuti, senza possibilità di convincimento, di sottoporsi al crossing vaccinale, allora tale rapporto rischio/beneficio va rivalutato, prendendo in considerazione il rischio di ammalarsi di chi “si ferma” alla prima dose. In tale caso infatti il bassissimo rischio di VITT alla seconda dose (inferiore, come si è detto, a 1: 1.000.000) è senz’altro minore del rischio di malattia.

Quindi, riepilogando:

– in uno scenario a bassa circolazione virale, è necessario assicurare ai soggetti più giovani la vaccinazione con il prodotto per loro meno reattogeno, anche se questo dovesse significare attendere un po’ di più;

– in chi ha meno di 60 anni, ha già ricevuto Vaxevria e deve completare il ciclo vaccinale, la soluzione più sicura e ragionevolmente altrettanto efficace è quella di usare un altro tipo di vaccino, che non comporta questi rischi e che stimola il sistema immunitario nello stesso modo;

– se qualcuno di questi utenti rifiuta categoricamente tale opzione, nel principio di massima tutela, è meglio correre il piccolo rischio di una reazione alla seconda dose piuttosto che lasciarlo con una protezione incompleta.

Comunicare meno, comunicare meglio

Si potrebbe concludere dicendo che, guardando al razionale e alle motivazioni espresse nei vari pareri tecnici e nelle circolari, “il ragionamento fila”: in sanità pubblica ogni procedura di prevenzione primaria è basata sul principio fondamentale di bilanciare il rischio e il beneficio, considerando non solo le condizioni dell’individuo ma anche quelle dell’ambiente in cui vive e i fattori di rischio a cui è esposto.

Durante una epidemia, questo approccio “di popolazione” è fondamentale sia per prendere le scelte giuste sia per comunicare in maniera trasparente ed efficace. Si è lamentato più volte il fatto che nei comitati scientifici siano presenti figure con competenze prevalentemente cliniche o microbiologiche; professionisti il cui contributo è fondamentale, per affrontare un problema complesso in una logica di interdisciplinarietà.

Tuttavia non dobbiamo perdere di vista che la pandemia è prima di tutto un problema di salute pubblica e che le scelte derivanti dalla gestione dell’emergenza incidono sulla società a livelli molteplici, con un orizzonte di conseguenze molto più ampio dell’interazione fra molecole o dell’esito clinico di uno specifico tipo di cura.

Facciamo attenzione, a tutti i livelli, a non perdere di vista il livello della sfida, che è quello della popolazione: la sanità pubblica include concetti come la responsabilità collettiva, il bene comune, l’interesse di ciascuno.

Sapere comunicare il rischio e il beneficio di ogni scelta collettiva richiede competenze e professionalità, che troppo spesso rischiamo di lasciare ai margini dei tavoli tecnici.

 

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