Hollywood e il suo mondo ciclopico e consolatorio non erano per lui. Se n’è stato distante. Già, perché David, morto per un cancro ai polmoni da accanito fumatore e marito di 4 mogli, con 3 figli, 10 film e 15 prodotti tivù, era un visionario, un eccentrico, un pittore innamorato del surrealismo e di tutto ciò che avesse a che fare con la visionarietà.
Il sogno era la sua passione, attraversato da follie ed incubi, che ha generato un cinema irregolare, inquietante come ad esempio in Cuore selvaggio (1990), un road-movie disarticolato ed eccessivo che però si prende la Palma d’oro a Cannes e lancia attori come Nicholas Cage e Laura Dem. Fallisce come autore di kolossal – Dune del 2001, ma che si prende un’altra Palma – e ritorna al suo mondo, quello di film come The Elephant Man, storia di un uomo mostruoso ma dall’animo sensibile.
Il noir lo attira ed ecco Strade perdute (1996) e Mulholland Drive del 2001, altro viaggio metà reale e metà onirico, molto personale e assolutamente libero dalla sirena glamour hollywoodiana. Senza dimenticare Twin Peaks, la serie televisiva estraniante dove è il male a vincere in una città di provincia con quella inquietudine che David manterrà sino all’ultimo film, Inland Empire.
Se voleva distruggere Hollywood e il suo ordine impositivo mondiale, Lynch, tanto irrequieto e onirico, così preso da ciò che rugge nell’inconscio umano, e se voleva fare del cinema un vissuto senza regole ma oltre le regole, ci è riuscito per davvero. Rimane un grande “diverso” nel panorama registico mondiale.
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