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Argentina: una sconfitta divenuta sisma istituzionale

di Alberto Barlocci

- Fonte: Città Nuova

Una settimana al cardiopalma quella appena trascorsa in Argentina. La vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner ha messo alle corde il presidente Alberto Fernández, attribuendogli la sconfitta ed imponendo un rimpasto di governo.

Foto: LaPresse

La dura sconfitta elettorale della maggioranza di governo peronista nelle primarie realizzate in Argentina la scorsa settimana, ha prodotto una catena di reazioni che ha confermato quanto sia vero che le crisi interne del peronismo si trasformano in crisi istituzionali. Appena una settimana fa, la proposta elettorale del presidente Alberto Fernández e della sua alleata e vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner, riceveva una sonora batosta. Di fronte al quasi 48% ottenuto dal principale gruppo di opposizione, la maggioranza ha raccolto uno scarso 25%.

(AP Photo/Marcos Brindicci).

Visti i risultati, ci si attendeva un dibattito interno e qualche correzione di rotta nell’Esecutivo, perché a novembre ci saranno le elezioni politiche di medio termine e se tale risultato si ripete sarà in gioco la maggioranza in Parlamento.

Cristina Fernández era di diverso avviso, convinta che la colpa di questa sconfitta sia da attribuire alla gestione del presidente in materia economica soprattutto, e che andassero prese misure drastiche con un rimpasto dei dicasteri sensibili. Ma lo stile della Fernández è di solito poco propenso al dialogo e a fare delle differenze tra questioni istituzionali e questioni interne di partito. Tanto è vero che in settimana vari ministri e funzionari che rispondono a lei hanno presentato le loro dimissioni. Non solo, ma in una lunga lettera pubblicata nel suo blog, la vicepresidente ha messo alle corde Alberto Fernández esigendo un rimpasto profondo di governo. Nella missiva ha ricordato che la legge di bilancio prevedeva un deficit di gestione del 4,5% del Pil, e finora si è arrivati al 2,1%, pertanto si possono stanziare fondi per il restante 2,4% per sostenere le politiche sociali tra i settori penalizzati dalla crisi economica derivata dalla pandemia – i poveri sono circa il 50% ed anche l’inflazione è prossima a tale cifra –. Ma Cristina Fernández fa anche di più: ricorda al presidente che alla fin fine chi lo ha messo sulla sedia presidenziale è stata lei, pertanto lo invita a far onore a tale decisione e a far onore alla volontà del popolo.

A parte l’identificazione alquanto improbabile tra la volontà del popolo e la propria, appare chiaro che a meno di due anni dall’inizio dal mandato, Fernández de Kirchner non è disposta a rischiare un’ulteriore sconfitta. Tale eventualità, in futuro, potrebbe mettere fine al ciclo della sua presenza al potere, con la possibile riattivazione dei processi per corruzione in cui compare tra gli accusati, processi che oggi dormono nei cassetti della magistratura addomesticata. Si sa che in Argentina certi processi dipendono da chi è al potere e tra i dimissionari – che non hanno usato la formula di “dimissioni indeclinabili”, pertanto sono ritirabili –, non a caso, non ci sono i due funzionari a lei leali che intervengono nelle cause dove è sotto processo.

Abile a forgiare pentole, Cristina ha qualche problema con i coperchi. Alla sua lettura dei fatti sfuggono alcuni aspetti. Proprio per aver messo sulla sedia presidenziale Alberto Fernández è la prima responsabile di eventuali fallimenti della sua proposta. In secondo luogo, le liste che hanno perso strepitosamente una settimana fa sono state confezionate non a sua insaputa, tutt’altro. Pertanto, attribuire al presidente questa sconfitta sorvola la sua responsabilità in merito. La sua giocata ha provocato un danno grave alla figura del capo di Stato che ha ceduto alla pressione rimpastando l’Esecutivo – il ministro degli Esteri ha saputo di essere stato destituito mentre era in missione –. Ma resta l’impressione che il peronismo abbia smesso di essere la tradizionale ancora della governabilità. Non solo, ma è chiaro che le istituzioni non coincidono con l’esercizio del potere e quest’ultimo non coincide con gli interessi di tutto un Paese, perché in democrazia le forme sono anche sostanza. Quello di questa settimana è qualcosa di molto più simile a un coup d’Etat* che a una discussione interna di partito.

(AP Photo/Natacha Pisarenko)

Un terzo aspetto che non appare nella sua lettera, il più importante, è proprio quello di una visione – e in questo le differenze tra lei e Alberto Fernández sono minime – per la quale l’economia viene messa in marcia non da un progetto credibile di crescita e di sviluppo, ma dalla tipografia di stato che stampa i biglietti necessari per i sussidi sociali concessi con manica larga. Sebbene non vada generalizzato come fenomeno, è vero che spesso la scelta tra il sussidio sicuro ed un posto che lo è meno ha giocato a sfavore del lavoro. Intere generazioni in certe zone vivono di sussidi. Una situazione che non gioca a favore della creazione di posti di lavoro. La diffusa corruzione mai presa di petto non consente di sviluppare un’imprenditoria che ha fiducia in un progetto di sviluppo basato su regole del gioco stabili e durature. Ed alla fin fine vincono i furbetti che più che imprenditori sono in realtà speculatori, mentre chi scommette sulla propria azienda deve sviluppare un alto grado di resilienza per poter andare avanti.

Questi nodi il kirchnerismo non li ha mai affrontati seriamente. Se da un lato ha combattuto certa oligarchia di vecchio stampo, ne ha favorito una di amici del potere, considerata necessaria per finanziare la politica di partito.

Dunque né una sana visione dell’economia, né una visione realmente fiduciosa nei meccanismi della democrazia. Perché un gruppo politico che riesce solo a concepirsi al potere, ha già frainteso la differenza tra fini e mezzi.

*Il termine colpo di stato viene dal francese e, nel XVII secolo, indicava decisioni improvvise del re che sorvolavano sia la legislazione che le norme morali. In genere l’obiettivo era quello di disfarsi di qualche avversario politico.

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