Acqua minerale. Tanta, benedetta e pure salata per le tasche dei cittadini. Ed è proprio così quando si affronta il tema in questione. Senza dubbio alcuno si tratta di una vera e propria industria, per meglio dire un comparto sempre più dinamico e in espansione: attraverso l’operato di ben 82 aziende (di cui 6 straniere) ed un fatturato di 4 miliardi di Euro l’Italia si colloca come terzo operatore mondiale per esportazione.
Sì, “esportazione” di acque minerali, ovviamente a fini di lucro, verso altri Paesi, di un bene naturale preziosissimo presente nel sottosuolo del bel Paese.
L’argomento che andiamo ad affrontare muove certamente da epoche e contesti assai differenti da quelli attuali. Tuttavia, proprio adesso, anche alla luce dei nuovi bisogni che si sono raffigurati, sarebbe arrivato il momento di rimettere in discussione l’attuale sistema concessorio dello sfruttamento della risorsa idrica.
Tale scelta, peraltro, anche alla stregua del Referendum del 2011 sull’acqua per mezzo del quale gli italiani hanno palesato il proprio pensiero circa la risorsa idrica, si raffigurerebbe come giusta e prioritaria da attuare.
Va detto che si tratta di valutazioni politiche che riguardo all’articolato disposto delle concessioni date a soggetti privati nel corso degli anni (autostrade, giochi d’azzardo, idrocarburi etc.) non rappresentano per la parte pubblica guadagni idilliaci come talvolta ci è stato raccontato, anzi: in più di un’occasione i veri risultati sono andati ad accrescere le finanze di pochi, mentre le perdite e i regressi sono state “socializzati” sulle spalle della collettività.
Tornando all’acqua, dunque, e facendo alcune ricerche si palesa un impianto di concessioni quantomeno curioso: Enti che concedono lo sfruttamento della risorsa (ricordiamoci per fini commerciali) per durate temporali estremamente diversificate: da 15 – 20 anni, fino ad arrivare a 99 (una pure perpetua…) e con canoni molto dissimili tra loro, forse anche troppo.
Provando a tralasciare “i perché” si è arrivati a questi punti, sarebbe invece auspicabile un’inversione di rotta al riguardo. L’ipotesi più sensata è che il comparto delle acque minerali sia gestito da aziende pubbliche e/o partecipate, ovvero che torni nelle mani della “res publica”. Senza voler tacciare nessuno di incompetenza, ci mancherebbe, una cosa è certa ed è un assioma: alla fantastica novella del “privato è bello, privato è meglio” non ci crede più nessuno; ciò che abbiamo visto e vissuto in ambito di gestioni concessorie è abbondantemente sufficiente.
L’ingresso della compagine pubblica nella gestione rappresenterebbe certamente un caposaldo per ciò che concerne la tutela e lo sfruttamento, un diverso guadagno da redistribuire sui territori, e non per ultimo un calmieratore di prezzi alla clientela che, com’è noto sempre a causa di fini commerciali, si vede chiedere una cifra abnorme per acquistare una bottiglietta di acqua.
Ripensare, ridisegnare in questa direzione la concezione del comparto ritrarrebbe un bel gesto di coraggio per la politica che, su questi temi, diciamoci la verità, consapevolmente o meno, fino ad ora ha sbagliato. Un uomo dal profilo politico e umano altissimo come Aldo Moro sosteneva non a caso che: «La verità è sempre illuminante, ci aiuta ad essere coraggiosi».