A casa di Massenzio

Non solo archeologia sull’Appia Antica. Il palazzo imperiale dello sfortunato imperatore sconfitto da Costantino è anche una riserva naturalistica che in questa stagione si presenta al meglio
Circo di Massenzio

Una dimora principesca forse mai abitata, un circo la cui pista forse non ha mai visto corse di cavalli e un mausoleo che forse non ha mai ospitato le spoglie del defunto a cui era destinato. Ecco il grandioso complesso imperiale costruito da Massenzio nel corso del suo breve regno e i cui ruderi sono visibili tra il secondo e il terzo miglio della via Appia, poco prima di giungere alla celebre tomba di Cecilia Metella.

Questo abbinamento di palazzo imperiale, mausoleo dinastico e circo – una novità che si andò affermando a partire dall’età tetrarchica, quando l’immenso Impero romano, non più gestibile da una sola persona, venne retto per volere di Diocleziano da due Augusti e due Cesari dislocati in sedi diverse – richiede una spiegazione.

Nella tarda antichità il circo, strettamente connesso col palazzo imperiale, era diventato il luogo privilegiato per l’incontro tra il sovrano e il popolo. E a sua volta c’era connessione tra il circo e il mausoleo a motivo dei giochi funebri con le corse dei carri – secondo una consuetudine che risale agli antichi greci ed etruschi – che avevano luogo nel primo. Quelle gare simboleggiavano il corso del sole, e quindi l’eternità astrale promessa al defunto divinizzato; e analogo significato solare avevano gli obelischi egiziani collocati nella “spina”, il muro che divideva la pista in due rettilinei.

Ora, nel turbolento periodo che Massenzio si trovò ad affrontare (ricordiamo che regnò solo sei anni, dal 306 al 312 d. C., quando venne sconfitto da Costantino presso il ponte Milvio e quindi ucciso), è improbabile che abbia abitato stabilmente qui, fuori della protezione delle mura urbane. E quanto al mausoleo eretto per il figlio Romolo, morto annegato nel Tevere a soli nove anni, non tutti gli studiosi concordano sul fatto che egli vi sia stato effettivamente sepolto. Lo stesso circo sembra non sia mai stato utilizzato, in quanto all’epoca dei primi scavi ottocenteschi non si trovò traccia di sabbia sulla pista.

Visitare questo complesso imperiale, certo meno noto al vasto pubblico degli altri resti monumentali della Città Eterna, è una gradevolissima scoperta. Specialmente in questa stagione in cui la natura si rigenera e si presenta al meglio, anche chi non è particolarmente interessato all’archeologia potrà apprezzare le notevolissime attrattive paesaggistiche e naturalistiche offerte dal sito.  E qui vorrei ricordare che il Parco regionale dell’Appia Antica in cui ci troviamo, che con le sue adiacenze si estende per ben sedici chilometri, comprende anche la valle della Caffarella (200 ettari), l’area archeologica di via Latina, quella degli Acquedotti (240 ettari), la Tenuta di Tor Marancia (220 ettari) e quella della Farnesiana (180 ettari). Questo vero e proprio “cuneo verde” tra i quartieri sud-orientali di Roma in direzione dei Colli Albani sfoggia paesaggi inconsueti, residuo di ciò che potevano ammirare i viaggiatori del Gran Tour di un tempo, e una flora estremamente varia e interessante, che va dalla macchia mediterranea al pioppo nero, dalla quercia di Dalechamps alla farnia, dalla carice maggiore alle piante tipiche delle zone umide, con superstiti esemplari di lecci secolari, orchidee spontanee e perfino rarità come il lupino greco, presente unicamente in altre tre località del territorio nazionale. Quanto alla fauna, tra i mammiferi sono frequenti ricci, talpe, donnole e persino qualche volpe; fra i ruderi abbondano i pipistrelli e, dove è presente l’acqua, rospi, rane e bisce. Tra gli uccelli si segnalano il gheppio e altri rapaci notturni.

Per tornare al complesso di Massenzio, l’unica parte attualmente visitabile è il circo, tra i più conservati dell’antichità: oltre alle due possenti torri che fiancheggiano i carceres, ovvero il punto di partenza per le quadrighe, sonoben riconoscibili la porta trionfale, la loggia imperiale  e la tribuna dei giudici di gara. Lungo 520 metri, l’edificio poteva contenere circa 10 mila spettatori. Ma oggi, crollate le gradinate, negli spazi vuoti prosperano la macchia mediterranea, il rovo, l’alterno, il lentisco, le ginestre dalla accesa fioritura gialla, e arbusti da sottobosco quali il biancospino, la fusaria, il corniolo sanguinello, il pruno selvatico. Altrove, olivi e mandorli. La pista – su cui svettava un tempo l’obelisco egiziano in granito ora a Piazza Navona – è un mare profumato di erba mazzolina, di margherita gialla, di caccialepre, di erba medica orbicolare, di salvia minore e calcatreppola campestre.

Da qui la vista spazia intorno su un panorama assolutamente immutato rispetto a quello riprodotto in un disegno di Goethe ora al National Museum di Weimar, disegno nel quale due microscopici visitatori appaiono sperduti nella solitudine dei ruderi con, sullo sfondo, il mausoleo di Cecilia Metella.

Ancora più rigogliosa è la vegetazione che soffoca ciò che rimane dell’adiacente palazzo imperiale, dove sono riprese le indagini archeologiche: s’intravedono appena brani di muraglioni dell’aula basilicale che doveva essere splendida per marmi, stucchi e mosaici. Tra breve invece, ultimati i lavori di restauro, la riapertura della tomba di Romolo, il cui nucleo – spogliato dei blocchi marmorei di rivestimento e trasformato nel Settecento in casale agricolo dai principi Torlonia, proprietari della zona – spicca al centro di un grandioso quadriportico. Spettacolare è anche solo la vista esterna.

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