Dopo le tante cose che si dicono sugli sbarchi degli immigrati sulle nostre coste siciliane, sembra che non ci sia più nulla da dire. Infatti le cronache giornalistiche si limitano a descrivere tristemente i fatti. Perché in realtà di parole da spendere non ce ne sono più molte.
Dopo il pellegrinaggio di papa Francesco a Lampedusa ogni appello è stato lanciato, il tema è stato messo bene a fuoco: accogliere e non respingere, soccorrere e non volgere altrove lo sguardo.
La proposta di dare il premio Nobel ai lampedusani – avanzata dalla stampa estera danese (ma non potevamo pensarci prima noi, i cittadini italiani?) – ha dato il suo importante contributo alla causa dell’accoglienza senza “se” e senza “ma”.
Di fatto nei nostri mari si continua a morire: gli scafi solcano le stesse onde delle navi da crociera, ma in prossimità dell’approdo sul litorale di Catania la secca trae in inganno gli immigrati: alcuni credono di essere ormai in acque sicure e di poter raggiungere a piedi la riva, ma non è così. Chi non riesce a nuotare muore tra onde basse, bassissime.
Cosa e chi li ha spinti a buttarsi in mare? Perché non hanno voluto aspettare che arrivassero i soccorsi?
Perché sanno bene che devono cercare di disperdersi sulla terra ferma prima che arrivino le forze dell’ordine, sennò rischiano (se maggiorenni) di essere rapidamente rispediti in patria.
Vogliono evitare i centri di accoglienza, le identificazioni, le attese estenuanti, gli interpreti che a volte capiscono e a volte no. Vogliono evitare di essere scambiati pergli scafisti (che sono abilissimi a confondere tutti, e poi altrimenti ci sono le indagini, gli interrogatori, i confronti, la prigione, il processo, ecc. ecc.).
Sanno che se sono arrivati vivi “il viaggio” va pagato (dai tremila ai cinquemila euro) e la prima telefonata da fare è proprio questa: confermare che la traversata è andata a buon fine e che si può pagare quanto pattuito con il trafficante che ha organizzato la spedizione. Ma soprattutto bisogna cercare di raggiungere i parenti e gli amici che già sono arrivati e che li aspettano, in Italia o in Francia, Germania, Svezia o altrove.
Ecco, parole per fare commenti all’ennesima tragedia proprio non ce ne sono più. Corriamo il rischio di far subentrare la noia davanti alla notizia che è sempre la stessa da anni: sbarchi, sbarchi e poi ancora sbarchi.
Invece non ci annoiamo né ci stanchiamo di ripetere che vogliamo dai governi (non solo dal nostro) decisioni veloci ed efficaci in materia di immigrazione e che vogliamo politiche internazionali capaci di intervenire al sorgere dei conflitti che velocemente degenerano in guerra.
Chi parte dalla propria terra col cuore straziato, abbandonando tutto e tutti, non è uno che cerca banalmente la fortuna da noi, ma è una persona privata di ogni speranza che vorrebbe solo continuare a vivere. Vivere: nient’altro.