Iran: è ripresa la guerra contro le donne

In concomitanza con l’attacco di droni e missili lanciati dall’Iran contro Israele il 13 aprile, il capo della polizia di Teheran ha annunciato sulle tv iraniane una nuova campagna contro le “violazioni della legge sull’hijab”, la stessa legge per cui è stata uccisa Mahsa Amini e che ha scatenato le rivolte contro il regime iraniano.
Una donna tiene in mano un'immagine dell'artista hip hop iraniano Toomaj Salehi, una delle voci principali della rivoluzione iraniana, durante una manifestazione in occasione del 44esimo anniversario della rivoluzione iraniana contro Shahh Reza Pahlavi, a Parigi, Francia, 12 febbraio 2023. Foto: APE/TERESA SUAREZ via Ansa

Il 24 aprile un tribunale di Isfahan, nell’Iran centrale, ha condannato a morte Toomaj Salehi, 33enne rapper iraniano con 2 milioni di follower su Instagram. Le accuse nei suoi confronti sono legate alle proteste del movimento Donna, Vita, Libertà (Jin, Jîyan, Azadî‎) sorto in Iran in risposta alla morte di Jina, Mahsa Amini, avvenuta a Teheran il 16 settembre 2022, dopo le percosse della polizia morale del regime per il velo indossato in un modo ritenuto non corretto. La sentenza condanna Salehi per “guerra contro Dio e corruzione sulla terra”, la peggiore imputazione nella Repubblica islamica, che comporta la pena di morte per impiccagione.

Salehi canta nell’ultimo video che aveva pubblicato su YouTube (ottobre 2022): «Il crimine di qualcuno è stato ballare con i capelli al vento. Il crimine di qualcuno è stato di essere coraggioso e criticare 44 anni di governo. Questo è l’anno del fallimento».

Le comunità iraniane della diaspora hanno manifestato in molte città del mondo (anche a Roma) contro questa sentenza di morte di un cantante giudicato colpevole per aver messo la sua arte al servizio dei diritti umani. La notizia della condanna di Salehi, come tutte le notizie riguardanti le proteste contro il regime iraniano, ha bucato il bavaglio e la retorica della censura di regime attraverso siti Internet di dissidenti iraniani all’estero o di associazioni internazionali per i diritti umani.

Una delle testate giornalistiche digitali più interessanti e informate è certamente IranWire (https://iranwire.com/en/), con sede a Londra. Il giornale, di alta qualità, è nato da un’idea di Maziar Bahari, un canadese di origini iraniane arrestato nel 2008 e recluso nel famigerato carcere di Evin per il suo lavoro di giornalista di Newsweek, poi rilasciato per le pressioni internazionali dopo 118 giorni di violenze e torture. Dal 2014 IranWire e i giornalisti che vi collaborano hanno allestito e formato una rete clandestina di 6 mila comuni cittadini iraniani, mettendoli in grado di documentare e trasmettere attraverso canali sicuri notizie e video delle rivolte e delle repressioni in Iran. Non a caso, è stata una giornalista di IranWire, Aida Ghajar, a scoprire e raccontare per prima, a tutto il mondo, la storia dell’uccisione di Mahsa Amini.

Intanto, in concomitanza con l’attacco di droni e missili lanciati dall’Iran contro Israele il 13 aprile, il capo della polizia di Teheran, Abbasali Mohammadian ha annunciato sulle tv iraniane una nuova campagna contro le “violazioni della legge sull’hijab”: «A partire da oggi – ha dichiarato Mohammadian – la polizia della capitale e di altre città attuerà misure contro quante violano la legge sull’hijab». Nelle stesse ore centinaia di poliziotti e agenti in borghese delle forze della sicurezza arrestavano per strada donne vestite in modo “improprio”, documentando gli arresti con video poi trasmessi in televisione.

Quelle che non sono state documentate sono le violenze degli agenti, anche torture e stupri, contro le arrestate. Abusi denunciati sui canali clandestini da testimoni oculari o da persone che hanno potuto ascoltare più tardi i racconti delle vittime.

Dal carcere dove è rinchiusa, Narges Mohammadi (Nobel per la pace 2023) ha denunciato il clima di violenza contro le donne mediante una telefonata, subito raccolta e ritrasmessa sui social da sostenitori e sostenitrici, che così facendo rischiano molto. La telefonata è stata possibile perché un’altra carcerata, Sepideh Gholian, le ha passato il suo telefono, controllato ma attivo, e la Mohammadi sapeva dove telefonare: pochi istanti rubati sotto il naso delle guardie. Non si conoscono le conseguenze che hanno dovuto subire Narges Mohammadi e soprattutto la sua compagna, per il gesto deliberato e coraggioso.

Nel suo messaggio, Narges Mohammadi ha accusato le autorità di condurre «una guerra su vasta scala contro tutte le donne in ogni strada dell’Iran». Ed ha aggiunto: «Popolo iraniano, chiedo a voi, artisti, intellettuali, lavoratori, insegnanti e studenti… dentro e fuori dal Paese, di protestare contro questa guerra contro le donne». Poi, rivolgendosi idealmente a ciascuna vittima della violenza: «Non sottovalutare il potere di condividere le tue esperienze. Farlo smaschererà il governo misogino e lo metterà in ginocchio».

In un editoriale del 26 aprile scorso, inoltre, la testata giornalistica del Pime, asianews.it, riferisce dello sciopero, nei giorni scorsi, di 200 studentesse dell’università Amir Kabir di Teheran «per protestare contro le recenti azioni repressive degli agenti di sicurezza per presunte violazioni al codice di abbigliamento. In prima linea gli iscritti e le iscritte alle facoltà di ingegneria e matematica, ma sono molte le lezioni interrotte, da medicina a chimica, per una protesta che rischia di estendersi ad altri atenei della capitale».

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