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Violenza e Democrazia

di Davide Viezzoli

- Fonte: Città Nuova

Un testo di Zamperini e Menegatto analizza ciò che si verifica nelle relazioni violente tra Stato e cittadini

Manifestazione dalla Rete degli Studenti Medi ‘Contro le manganellate e la gestione del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi” in riferimento agli eventi accaduti a Pisa, Firenze e Catania, tra manifestanti e Forze dell’Ordine, Roma, 25 febbraio 2024. ANSA/ANGELO CARCONI

Lo scorso venerdì 23 febbraio, la polizia ha caricato con violenza due cortei di studenti a sostegno della popolazione palestinese a Pisa e Firenze. A Pisa, gli studenti sono stati bloccati in una strada stretta e manganellati dagli agenti, anche mentre scappavano. A Firenze, la polizia ha impedito ai manifestanti di raggiungere il consolato americano. Ci sono stati 18 feriti, tra cui molti minorenni. Le immagini degli scontri hanno suscitato polemiche e indignazione, e il presidente della Repubblica Mattarella ha richiamato il ministro dell’Interno Piantedosi, dicendo che «i manganelli con i ragazzi esprimono un fallimento».

Non sono stati, questi, episodi isolati: fatti analoghi sono avvenuti recentemente a Napoli e Torino, così come davanti alla sede Rai di Bologna, sempre durante manifestazioni a favore della Palestina. Tornando più indietro nel tempo, sono rimasti nella memoria collettiva la macchia storica del G8 a Genova del 2001[1] o i fatti avvenuti nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere nel periodo del lockdown 2020.[2] Anche all’interno delle democrazie, quindi, la violenza di Stato esiste.

È fondamentale partire però da una constatazione: l’uso legittimo della forza è una prerogativa delle forze dell’ordine, frutto di un patto sociale tra Stato e cittadini, siglato al fine di mantenere l’ordine pubblico, proteggere la sicurezza di tutti e tutte e far rispettare la legge. L’uso della forza è giustificato quando costituisce l’extrema ratio e quando viene scelto il mezzo meno lesivo e proporzionato alle circostanze specifiche del caso. La violenza si configura invece nel momento in cui l’uso della forza superi i limiti legali o non sia giustificato dalle circostanze.

I ricercatori Zamperini e Menegatto, nel loro libro Violenza e Democrazia. Psicologia della coercizione (Mimesis Edizioni, 2016), propongono un modello triangolare, il triangolo della violenza, per comprendere al meglio ciò che si verifica nelle relazioni violente tra Stato e cittadini. Ai tre vertici di questo triangolo stanno i protagonisti della relazione: i perpetratori della violenza, le loro vittime, e chi a questa relazione assiste, giudica, valuta, condanna o assolve: in sintesi, noi spettatori.

Perpetratore della violenza
Bisogna liberarsi da subito dal concetto di “mele marce”, ovvero singoli individui particolarmente inclini all’agire violento. Il singolo poliziotto può poco: il suo agire va dunque inscritto in un fenomeno che è, gerarchicamente, istituzionale, culturale e gruppale; la violenza va letta quindi in ottica sistemica e non mono-personale. Vari studi sulla cosiddetta “police culture”, la “cultura poliziale”, hanno osservato dinamiche psicologiche e gruppali piuttosto diffuse: una sorta di cameratismo di stampo più militare che civile, con conseguente percezione di sé da parte degli agenti come membri di un gruppo “in guerra”, piuttosto che al servizio dei e delle cittadine; la percezione di chi sta al di fuori del corpo di polizia come gruppo rivale esterno (i manifestanti in questo caso), ovvero come “nemico militare”; la convinzione di agire per un mandato superiore di giustizia e sicurezza, mandato che nella percezione di gruppo rafforza moralmente il fine andando così a giustificare il mezzo violento. A tutto questo si lega uno scarso riconoscimento economico e sociale, e una scarsa professionalizzazione durante le fasi di addestramento, spesso più incentrate sull’uso delle armi che sulla gestione psicologica ed emotiva del conflitto.

Vittima della violenza
Zamperini e Menegatto hanno introdotto il concetto di trauma psicopolitico, focalizzandosi sulle conseguenze delle violenze perpetrate ai danni dei cittadini all’interno di uno Stato di diritto. A differenza delle situazioni in cui una persona che protesta in un contesto dittatoriale o di guerra può aspettarsi trattamenti inumani, il cittadino in un sistema democratico non è preparato a fronteggiare tali abusi. Il trauma psicopolitico coinvolge con conseguenze non solo il corpo e l’identità della vittima, ma anche la sua partecipazione alla vita pubblica e sociale, minando la fiducia nelle istituzioni e nel sistema democratico. Le vittime, oltre alla disabilità fisica e psicologica, subiscono anche una ferita di cittadinanza, perdendo la possibilità di credere nei propri diritti e nel funzionamento dello Stato.

Spettatore
Il terzo e ultimo polo siamo noi spettatori. Nel triangolo della violenza, il terzo ha un ruolo chiave: può spezzare il legame condannando il perpetratore, oppure rafforzarlo se è indifferente o compiacente. Per fare la scelta giusta, è fondamentale che il terzo riconosca la vittima come tale. Di fronte a degli abusi commessi in un regime democratico diventa dunque fondamentale il ruolo dell’accountability, ovvero il rendere conto, il dover rispondere (alla giustizia, all’opinione pubblica) di un comportamento rispetto ad una determinata cornice valoriale. La vittima cerca il sostegno del terzo per uscire dalla trappola del rapporto con il perpetratore. Condividere la propria sofferenza con la collettività aiuta la vittima a sentirsi meno sola e legittima il suo dolore, ricostituendo il suo legame sociale e politico; al contempo, la consapevolezza del giudizio sociale può indurre il perpetratore ad autoregolarsi e frenare le sue azioni.

La qualità di uno Stato di diritto si misura anche – forse soprattutto – dalla possibilità di usare sapientemente il monopolio della forza fisica e della coercizione. Di tale possibilità sono responsabili le istituzioni ma anche noi come Terzo, come pubblica opinione, con la nostra coscienza umana e civile, con la nostra capacità di saper discernere il diverso peso delle responsabilità nella gestione della violenza. Il potere di decidere se e quando spezzare il legame tra perpetratore e vittime è una nostra responsabilità.

[1] https://www.ilpost.it/2021/07/19/g8-genova-venti-anni-dopo/

[2] https://www.ilpost.it/2021/07/01/violenze-carcere-di-santa-maria-capua-vetere-video-indagini/

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