Per festeggiare i sessant’anni di carriera dei Nomadi, va in onda, il 5 gennaio su Rai2, in seconda serata, un luminoso e toccante documentario dal titolo “Nomade che non sono altro”, prodotto da Rai Documentari, diretto da Fedora Sasso e costruito con parole non banali, tra cantate e parlate, tutte convergenti all’omaggio (doveroso) a uno dei gruppi più longevi d’Italia, «secondo solo ai Rolling Stones», dice Beppe Carletti, molto presente tra gli intervistati perché componente storico del gruppo. Uno dei grandi e uno degli antichi camminatori di questa band entrata nella storia del nostro costume.
Quei Nomadi che hanno accompagnato le nostre stagioni grazie a brani memorabili come “Io vagabondo”, per esempio, “Noi non ci saremo”, senza dimenticare “Dio è morto”, scritto da Francesco Guccini intorno alla metà degli anni sessanta, ma poi portato al grande successo proprio dal gruppo emiliano.
Non si tratta di una canzone irrispettosa verso Dio, ma al contrario vi si può leggere dentro un valore cristiano. Nel documentario, infatti, nel quale parlano artisti del calibro Ligabue, Caterina Caselli e lo stesso Guccini, oltre a Fiorello, Pino Strabioli e, tra gli altri, don Giordano Goccini, parroco di Novellara (paese d’origine di Augusto Daolio, inconfondibile voce del gruppo per molti anni) questo testo viene attraversato e analizzato: Guccini ricorda come «fu censurato dalla Rai ma poi lo mandò la Radio Vaticana, perché non era blasfema, anzi, fu apprezzata e la cantarono in chiesa, con la moda delle messe beat, con la chitarra durante la messa».
Lo stesso don Giordano, seduto al centro della chiesa di Novellara, ricorda: «Io credo di aver sentito per la prima volta “Dio è Morto” in chiesa, da ragazzino, perché allora si cantava in chiesa, tra chi era scandalizzato da questi capelloni che schitarravano, e chi l’accoglieva finalmente come un’apertura e una novità». Poi su “Dio è morto” – che a un certo punto del testo diventa “Dio è risorto” – il sacerdote aggiunge: «Non si può negare che in quella canzone ci sia un po’ dell’entusiasmo degli anni della contestazione, per un’umanità nuova che stava nascendo, e forse anche – un po’ inconsapevolmente – di una vera interpretazione del cristianesimo».
Un segno dei tempi, dunque, un brano che riassume quel momento di cambiamento e di speranza per una società nuova che potenzialmente poteva prendere forma. “Nomade che non sono altro” è emozionate anche perché parla di appartenenza a un territorio: l’Emilia, e in questo senso la chiacchierata in dialetto tra Guccini e Carletti seduti a un tavolino, con un bicchiere di buon vino rosso tra le mani, è uno spasso e già da sola vale la visione di questo documentario affettuoso e dinamico che parla di rapporti umani e di un viaggio tanto lungo quanto leggero, fatto di passione e divertimento, anche se segnato dai lutti inevitabili che il tempo inevitabilmente porta ad incontrare.
La musica rimane, però, come la voglia di utilizzarla per stare insieme, e le immagini del concerto tenuto a Novellara, per festeggiare i primi sessant’anni di questa storia fertile e vitale, lo testimoniano chiaramente. Lo ribadiscono anche le parole di Augusto Daolio, recuperate da materiali di repertorio, così come le tante di Beppe Carletti e di tutti gli altri intervistati. Una visione costruttiva, dunque, oltreché nostalgica e storica, questo “Nomade che non sono altro”.
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it