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Donne sfruttate, ultimo anello della catena delle multinazionali

di Verónica Cañizares Ramos

- Fonte: Città Nuova

L’ong CARE sostiene che le aziende hanno il potere di cambiare norme e comportamenti attraverso le loro decisioni di acquisto e di approvvigionamento. Articolo in lingua originale e traduzione in italiano

donne sfruttate
Licenza Creative Commons. File: CSIRO. Pulizia manuale del cotone prima della lavorazione in una filanda indiana.

Il commercio internazionale non è neutrale dal punto di vista del genere; se si pensa ai prodotti consumati da gran parte del Nord del mondo, quasi nessuno sa da dove provengono esattamente queste merci. Si conoscono i nomi delle grandi imprese multinazionali, ma non le loro catene di approvvigionamento e produzione, né le condizioni di lavoro di tutti i loro lavoratori nel Sud del mondo. Con l’obiettivo di affrontare questi temi, il 3 e 4 novembre si è tenuta presso l’Universitat de València (UV) la conferenza “Violenza di genere nelle catene di valore globali: realtà, sfide e prospettive”.

Una delle conclusioni raggiunte è stata che la violenza di genere è presente in tutte le relazioni delle persone coinvolte nelle catene globali, quindi è importante affrontare le cause e i fattori di rischio, puntando sul paradigma delle disuguaglianze. In questo modo, la parità di genere e lo sviluppo di catene di valore sostenibili devono essere intesi come fini interdipendenti. Nel rapporto “Sviluppo di catene di valore sensibili al genere”, pubblicato nel 2017, le Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura sottolineano che «importanti studi comparativi hanno già dimostrato che i miglioramenti nella parità di genere e nella crescita economica possono rafforzarsi a vicenda, mentre le disuguaglianze di genere sono spesso costose e inefficienti».

Un esempio estremo dello sfruttamento lavorativo subito dalle donne nelle catene globali è il caso di Sumangali, denunciato dal sindacato Comisiones Obreras (CCOO). Sumangali (“donna felicemente sposata”) è un’espressione in lingua tamil, specifica dello Stato indiano del Tamil Nadu, che si riferisce a una pratica che consiste nell’assumere ragazze di età compresa tra i 12 e i 18 anni, appartenenti a caste inferiori e in situazioni di estrema vulnerabilità, per farle lavorare per 3 anni in turni di oltre 72 ore settimanali con salari inferiori allo stipendio minimo, con la promessa di una dote che riceveranno alla fine per potersi sposare.

Secondo il CCOO, l’80% di questa pratica riguarda l’industria della filatura del cotone e il resto l’industria dell’abbigliamento. Attualmente in India, più di 250 mila donne sono impiegate nell’ambito di questo programma e ci sono circa 2.500 fabbriche concentrate principalmente nei distretti dello Stato meridionale del Tamil Nadu. L’ambiente di lavoro è umido e polveroso, con una scarsa ventilazione, che comporta gravi problemi di salute. I turni notturni seguiti da quelli diurni e il lavoro forzato, a prescindere dallo stato di salute dei lavoratori, sono una pratica comune, mentre le assenze per malattia non sono retribuite.

Il sindacato spiega che non tutte terminano il contratto, dovuto a fughe o licenziamenti, e che sono stati registrati alcuni tentativi di suicidio. Queste minori subiscono sfruttamento lavorativo e abusi sessuali da parte dei datori di lavoro, sottoforma di avances, punizioni corporali e molestie. Questo può essere estrapolato alle condizioni subite dalla maggior parte delle donne in fondo alle catene globali di valore, come è stato sottolineato durante la conferenza. Questa è la realtà su cui si basa la maggior parte del consumo mondiale di beni.

A questo proposito, l’adozione della Convenzione 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nel 2019 e della Raccomandazione 206 è stata fondamentale, in quanto sono le prime norme internazionali sul lavoro a fornire un quadro comune per prevenire, rimediare ed eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro, compresa la violenza e le molestie di genere. La Convenzione include, per la prima volta nel diritto internazionale, il riconoscimento specifico del diritto di ogni persona a un mondo del lavoro libero da violenze e molestie. L’Italia lo ha ratificato nell’ottobre 2021 e la Spagna nel maggio di quest’anno.

Oltre alla regolamentazione internazionale, che è fondamentale, l’ong CARE ritiene che le aziende abbiano un potere significativo nel cambiare norme e comportamenti attraverso le loro decisioni di acquisto e di approvvigionamento. A tal fine, propongono che le aziende rivedano la loro catena di approvvigionamento, si assicurino che sia inclusiva, misurino e rispondano ai dati di genere dei fornitori, sostengano le donne nella loro catena di approvvigionamento, richiedano politiche inclusive ai loro fornitori, agiscano dall’alto verso il basso come datori di lavoro e tutelino i diritti umani.

Da parte sua, la Clean Clothes Campaign, una rete di organizzazioni presenti in più di 17 Paesi europei, nel suo rapporto “Rendiamo la giustizia di moda” pubblicato nel 2021, sottolinea che le pratiche di acquisto dei marchi sono alla base delle violazioni dei diritti umani lungo tutta la loro catena di approvvigionamento. Oltre alla loro dipendenza da audit sociali difettosi, alla mancanza di sicurezza del lavoro, alla disuguaglianza di genere, ai bassi stipendi, agli attacchi sistematici alla libertà di associazione, alla mancanza di trasparenza della catena di valore e alla mancanza di rimedi efficaci in caso di violazione dei diritti umani.

Nel rapporto si chiede l’obbligo di rispondere con la dovuta diligenza aziendale, un processo in base al quale le aziende adottano tutte le misure necessarie ed efficaci per identificare, prevenire, attenuare, mitigare, rendere conto e rispondere degli impatti negativi reali o potenziali delle proprie attività o di quelle della propria catena del valore. Chiede quindi una regolamentazione vincolante concreta e completa per garantire una condotta aziendale responsabile.

All’inizio di quest’anno la Commissione europea ha annunciato l’adozione di una proposta di direttiva sulla dovuta diligenza di sostenibilità delle imprese, che mira a promuovere un comportamento aziendale sostenibile e responsabile lungo le catene di approvvigionamento globali.


El comercio internacional no es neutral al género; si se piensa en los productos que consume gran parte del norte global, casi nadie sabría decir de dónde provienen exactamente estos bienes. Se conoce el nombre de las grandes empresas transnacionales, pero no cuál es su cadena de suministro y producción, así como las condiciones laborales de todas sus trabajadoras y trabajadores en el sur global. Con el objetivo de abordar estas cuestiones el pasado 3 y 4 de noviembre se celebró en la Universitat de València (UV) el congreso: “Violencia de género en las cadenas globales de valor: realidad, retos y perspectivas”.

Una de las conclusiones a las que se llegó fue que la violencia de género está presente en todas las relaciones de las personas que participan en las cadenas globales, por lo que es importante abordar las causas y factores de riesgo, apuntando al paradigma de las desigualdades. De esta forma, debe entenderse la igualdad de género y el desarrollo de cadenas de valor sostenibles como fines interdependientes. La ONU para la Alimentación y la Agricultura subraya en su informe “Desarrollo de cadenas de valor sensibles al género”[1], publicado en 2017, que “los principales estudios comparativos ya han demostrado que las mejoras en la igualdad de género y el crecimiento económico pueden reforzarse mutuamente, mientras que las desigualdades de género suelen ser costosas e ineficientes”.

Un ejemplo extremo de la explotación laboral que sufren las mujeres en las cadenas globales es el caso del Sumangali, según denuncia el sindicato Comisiones Obreras (CCOO). Sumangali (“mujer felizmente casada”) es una expresión en idioma tamil, propio del Estado Tamil Nadu del Sur de la India, que hace referencia a una práctica que consiste en la contratación de niñas de 12 a 18 años, pertenecientes a castas inferiores y en situaciones de extrema vulnerabilidad, para que trabajen durante 3 años en jornadas de más de 72 horas semanales con salarios por debajo de los mínimos fijados, bajo la promesa de una dote que recibirán al finalizar para poder contraer matrimonio.

Esta práctica se aplica en un 80%, según CCOO[2], en la industria de hilatura del algodón y el resto en la confección. Actualmente en la India, son más de 250.000 mujeres las que están empleadas bajo este esquema y existen alrededor de 2.500 fábricas concentradas principalmente en distritos del estado sureño Tamil Nadu. El ambiente de trabajo es húmedo y con polvo de algodón, con escasa ventilación, lo que conlleva graves problemas de salud. Los turnos nocturnos seguidamente de los diurnos y el trabajo forzoso independientemente del estado de la salud de las trabajadoras son prácticas frecuentes, sin embargo, las bajas por enfermedad no son retribuidas.

Desde el sindicato explican que no todas terminan el contrato como consecuencia de huidas o despidos y que además se han llegado a registrar algunos intentos de suicidio. Estas menores sufren explotación laboral y abusos sexuales por parte de sus empleadores, en forma de insinuaciones, castigos corporales, toqueteos y hostigamiento. Esto es extrapolable a las condiciones que soportan la mayoría de mujeres en los últimos eslabones de las cadenas globales de valor, tal y como se hizo constar en dicho congreso. Esta es la realidad en la que se fundamenta la mayor parte del consumo mundial de bienes.

En este sentido, ha sido clave la aprobación del Convenio 190 de la Organización Internacional del Trabajo (OIT)[3] en 2019 y la recomendación 206, dado que son las primeras normas internacionales del trabajo que proporcionan un marco común para prevenir, remediar y eliminar la violencia y el acoso en el mundo del trabajo, incluidos la violencia y el acoso por razón de género. El Convenio incluye, por primera vez en el derecho internacional, el reconocimiento específico del derecho de toda persona a un mundo del trabajo libre de violencia y acoso. Italia lo ratificó en octubre de 2021 y España lo ha ratificado en mayo de este año.

Además de la normativa internacional, que es fundamental, la ONG CARE [4]considera que las empresas tienen un poder significativo para cambiar normas y comportamientos a través de sus decisiones de compra y abastecimiento. Para ello, proponen que las empresas examinen su cadena de suministro, garanticen que sea inclusiva, midan y reaccionen a los datos de género de los proveedores, brinden apoyo a las mujeres en su cadena de suministro, exijan políticas inclusivas a sus proveedores, actúen desde arriba como empleadores y defiendan los derechos humanos.

Por su parte, la Campaña Ropa Limpia (Clean Clothes Campaign), una red de organizaciones presente en más de 17 países europeos, en su informe “Pongamos la justicia de moda[5]” publicado en 2021, destaca que las prácticas de compra de las marcas, son la raíz de las violaciones de Derechos Humanos a lo largo de toda su cadena de suministro. Así como su dependencia del defectuoso sistema de auditoría social, la falta de seguridad en el trabajo, la desigualdad de género, los bajos salarios, los sistemáticos ataques a la libertad de asociación, la falta de transparencia de la cadena de valor y la falta de recursos efectivos en los casos de violaciones de los derechos humanos.

En dicho informe, aboga por exigir el cumplimiento obligatorio por parte de las empresas de la diligencia debida, proceso por el cual las empresas toman todas las medidas necesarias y eficaces para identificar, prevenir, mitigar, rendir cuentas y responder por los impactos negativos, reales o potenciales de sus propias actividades o las de su cadena de valor. Reclama, por tanto, una normativa vinculante concreta y exhaustiva que garantice una conducta empresarial responsable.

Este mismo año la Comisión Europea[6] ha anunciado la adopción de una propuesta de Directiva sobre la diligencia debida de las empresas en materia de sostenibilidad, que tiene por objeto fomentar un comportamiento empresarial sostenible y responsable a lo largo de las cadenas de suministro mundiales.

[1] https://www.fao.org/3/i9212es/I9212ES.pdf

 

[2] https://www.ccoo-servicios.es/html/33504.html

 

[3] International Labour Organization (ILO) https://c190.lim.ilo.org/

 

[4] https://www.care.org/es/about-us/strategic-partners/corporate-partnerships/sdg5-playbook/in-the-supply-chain/

 

[5] https://ropalimpia.org/wp-content/uploads/2017/08/Informe-Pongamos-la-justicia-de-moda.pdf

 

[6] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/es/ip_22_1145

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