La guerra non è mai esclusivamente affare dei militari, ha sempre influenze su tutto lo spettro delle umane attività. Così, ovviamente, è anche della guerra in Ucraina, che continua e continuerà a lungo ad assumere volti sempre nuovi e, soprattutto, parole sempre nuove. E inattese. Sul terreno, nelle cancellerie dei Paesi direttamente o indirettamente implicati nella guerra, e anche nelle loro politiche interne, le parole partono come pallottole o missili, e viceversa razzi e proiettili parlano con le loro traiettorie e i loro boati. Penetriamo appena un po’ nel ginepraio delle parole della guerra, e vedremo come agiscano in modo diverso.
Le parole sulla guerra in Ucraina pronunciate da molti politici occidentali – soprattutto quelli che non stanno nella stanza dei bottoni, che hanno da essere più responsabili − potrebbero spesso essere facilmente derubricate tra le “incontinenze verbali” che vengono usate come armi per ottenere un qualche obiettivo politico interno. Nulla di nuovo sotto il sole. Anche le affermazioni di un noto leader italiano in cerca di qualche visibilità, o di qualche ministro in più, vanno considerate di questo genere. Anche se, tra queste “parole in libertà”, ma non “di libertà”, non poche andrebbero inserite nella sempre più vasta famiglia delle “post-verità”, della grande assemblea di esternazioni, in cui Donald Trump era campione, in cui la verità dei fatti viene sostanzialmente svuotata, perché per i sostenitori di questo andazzo vero è ciò che appare vero, non cioè che lo è sul serio.
Curiosamente, il leader russo Putin è invece molto meno “volatile” nelle sue parole e nei suoi discorsi; sa dare un peso politico notevole alle sue in fondo poche parole. Non viene come altri dal commercio, ma piuttosto dai servizi segreti, prima KGB poi FSB, ambienti in cui la parola è merce assai rara: meno si parla e meglio è, meno le espressioni fonetiche prendono la via della pubblicità e meglio è. Putin parla poco, e parla deciso, pesa le parole e le offre ai giornalisti e alle folle seppur con una grande attenzione comunicativa. Le sue parole, tra l’altro, difficilmente possono essere qualificate come “post-verità”, perché Putin sembra credere fermamente in quello che dice, crede di “dire la verità”, anche se può darsi che i suoi collaboratori gli facciano credere che certe verità siano tali, mentre in realtà sul campo le cose vanno diversamente.
Il suo omologo ucraino, Zelensky, è invece un professionista della parola, è un attore che sa recitare la sua parte con grande perizia. La guerra lo ha messo dinanzi alla responsabilità di parlare con forza politica, e non solo con la forza dello spettacolo. Sa “mettere in scena” i suoi discorsi, grazie certamente all’aiuto di una potente squadra di comunicatori. Usa molte più parole di Putin, deve sostenere le sue truppe, il suo popolo, la solidarietà occidentale, e quindi quotidianamente sa essere presente. Conscio dell’inferiorità dei mezzi suoi rispetto a quelli dell’avversario, sa che deve “sparare alto” e convincere i possibili fornitori. Anche lui non è un adepto della “post-verità”, anche se nella guerra, mai dimenticarlo, le parole sono di parte, rarissimamente sono obiettive, sono semplicemente l’espressione di una parte in campo.
In breve, se tanti politici non in prima linea parlano soprattutto “con la pancia”, attenti al barometro della propria popolarità, Putin, Zelensky e i leader in carica parlano più “con il cervello” perché hanno una realtà più drammatica sotto i loro occhi e sanno che le loro parole possono incidere sull’esito della guerra. È importante aver presente questa distinzione, per dare il giusto peso alle singole espressioni e per capire se corrispondano o meno alla realtà delle cose: quelle di Putin e Zelensky sono verba quae aedificant. Se è difficile che in guerra vi siano parole equilibrate, è anche vero che i discorsi possono essere passati attraverso una sorta di “macchina della verità”, cercando di capire se cioè abbiano una dimensione “performante”, come amano dire i filosofi, cioè parole che generano fatti reali. Le parole di Putin o Zelensky generano nei fatti droni, missili, offensive militari, muri di diffidenza e odio, resistenza… mentre quelle di tanti politici lontani dai campi di battaglia rientrano nel novero delle diatribe che restano e resteranno verbali. Sono verba quae volant.
Post scriptum: in pace le parole non hanno bisogno di post-verità per affermarsi. Non c’è bisogno di capire se corrispondano al vero o meno. Le parole della pace sono performanti, perché vanno nella direzione della soluzione condivisa dei problemi. Le parole di un Martin Luther King o quelle di un John Kennedy, ad esempio, o ancora quelle di un Mandela, e perché no quelle di un Francesco, hanno sì il merito di cercare la verità della giustizia, anche a costo di pagare di persona, ma sono state “performanti”, perché hanno permesso l’affermazione di un’avanzata reale di società intere verso la fine del razzismo e della contrapposizione sociale. In funzione della pace.