Come deve considerarsi il caporalato? Soltanto un fenomeno criminoso, oppure anche una piaga sociale? Oppure, con quel tanto di ipocrisia che serve sempre a lasciare le cose come stanno e a coprire la pigrizia di chi non vuole impegnarsi per un mondo più giusto, una dolorosa necessità, in quanto prezzo da pagare sull’altare dello sviluppo di alcuni settori dell’agricoltura?
Il legislatore ha preso posizione, facendo una scelta netta a favore del contrasto allo sfruttamento lavorativo, ritenuto sostanza del più ampio fenomeno del caporalato, ed anche ragione all’origine di alcune gravi storture presenti nella filiera agroalimentare, che chiamano in causa, tra gli altri, la Grande Distribuzione Organizzata (GDO).
E tuttavia la legge n. 199 del 2016, che punisce severamente l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro (da uno a sei anni di reclusione, oltre la multa da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore reclutato; da cinque ad otto anni di reclusione, oltre la multa da 1000 a 2000 euro per ogni lavoratore, se i fatti sono commessi con violenza o minaccia), non sembra sia bastata, a tutt’oggi, a stroncare questa realtà che, al di là dei suoi profili penali, si caratterizza per forme indegne di un Paese civile. Non che manchino investigazioni e processi, oggi più numerosi di qualche anno fa: ciò dimostra, tra l’altro, che il legislatore ha descritto i comportamenti puniti e, prima ancora, ha definito gli indici dello sfruttamento in modo, nel complesso, aderente alla realtà, agevolandone, almeno in astratto, la repressione.
E tuttavia, ancora una volta, l’esperienza conferma che la repressione non basta quando si ha a che fare con una illegalità intrecciata con il profitto, condizionante gli equilibri di un importante comparto dell’economia del nostro Paese, e molto radicata. Per averne ragione, in questi casi, è indispensabile agire su piani diversi, affiancando a quello investigativo/giudiziario, quello amministrativo e quello della battaglia culturale e ideale.
Sul versante amministrativo, la già citata legge n.199 del 2016 ha valorizzato lo strumento della Rete del lavoro agricolo di qualità, finalizzata a stimolare i comportamenti virtuosi degli imprenditori agricoli, e ne ha migliorato l’operatività ai fini della verifica del rispetto delle normative vigenti da parte delle imprese.
Sul piano della battaglia culturale e ideale, l’obiettivo da realizzare è, anzitutto, far conoscere le storie di sfruttamento lavorativo e, in particolare, quelle che riguardano il lavoro agricolo. Spezzare le catene è un volume che ha, anzitutto, questo straordinario merito. È una raccolta di storie di lavoratori vittime di caporali e di utilizzatori finali del loro sfruttamento, imprenditori senza scrupoli che li costringono a lavorare con turni massacranti e con paghe orarie di 2 o 3 euro, largamente inferiori ai minimi contrattuali, trasportati su mezzi di fortuna in condizioni di grave insicurezza, ospitati in baracche e tende bruciate dal sole durante il giorno, fruendo di servizi igienici indecenti.
Le storie si conoscono anche attraverso la voce di chi lavora, quasi sempre immigrato, sovente sfinito da una fatica che, come le cronache a volte ci segnalano, toglie la vita a chi lavora nei campi (emblematica la vicenda di Paola Clemente, morta il 13 agosto 2015 a San Giorgio Jonico, mentre era dedita al suo lavoro di acinellatura dell’uva), o in incidenti stradali causati da chi guida in modo pericolosissimo furgoni strapieni che trasportano i braccianti reclutati. E le storie non si svolgono soltanto al Sud, ma anche nel Centro e, come le indagini in corso confermano, al Nord.
Non solo. Raccontano perfino di caporali essi stessi immigrati. Confermano la presenza della criminalità mafiosa nell’intera filiera agroalimentare, e il suo interesse a mantenere agli attuali livelli le retribuzioni di determinati lavori agricoli, per garantire la convenienza di certi prezzi nell’offerta dei prodotti nei supermercati, spesso dalla stessa criminalità controllati.
Ci informano che, dopo i primi anni di applicazione della nuova legge, caporali e imprenditori si stanno organizzando con strategie volte a nascondere la realtà dello sfruttamento lavorativo e, così, a sottrarsi a indagini e processi; e che le lavoratrici donne sono esposte, oltre che alle violenze e minacce di cui sono vittime gli uomini, anche ad altri tipi di violenze, con le quali -all’evidenza- se ne vuole annientare la dignità, per indebolirne la capacità di ribellarsi all’ingiustizia e di rivendicare i propri diritti. Senza contare che c’è stato, perfino, chi ha pagato con la vita il suo impegno contro la schiavizzazione dei suoi connazionali in tempi in cui le leggi erano diverse. Le cronache del tempo documentarono la storia, ricordata nel volume, di Jerry Masslo
«esule sudafricano, scappato dal proprio Paese a causa del sistema criminale di schiacciamento dei neri da parte dei bianchi: l’apartheid….L’epilogo sarà drammatico e traumatico: Masslo è trucidato a colpi di rivoltella il 25 agosto 1989 in un raid razzista mascherato da rapina. Masslo è colpevole di aver osato sfidare l’ordine stabilito. Cioè lo sfruttamento della “sua gente”, nei campi. Un affronto che andava sedato, stroncato, soffocato nel sangue. Dalla notte dei tempi, il principio è immutabilmente lo stesso: colpire ferocemente uno per annientare definitivamente ogni velleità di rivendicazione presente e futura di altri. D’altronde, Capua dista poco da questi luoghi: le grida e i supplizi delle orde di schiavi crocifissi da Crasso lungo la Via Appia, dopo la neutralizzazione di Spartaco, sembrano udirsi, dissolti e evanescenti, nei pianti soffocati, nella disperazione dei “nuovi cafoni” che rimandano alla memoria di Giuseppe Di Vittorio».
Ma la violenza (quella che ha prodotto la morte di Jerry Masslo, ma anche quella che si è manifestata nell’eccidio di Rosarno, del 7 gennaio 2010), non è, per fortuna, l’unica protagonista di questo film sulle catene che bloccano i polsi di tanti che producono frutti e ortaggi da noi tutti apprezzati ogni giorno sulle nostre tavole. Per fortuna, c’è anche l’universo variegato di chi si schiera dalla parte giusta. Dal sindacato, che sostenne i lavoratori impegnati nella raccolta dei pomodori a Nardò nel 2011, i quali scioperarono contro caporali e padroni per le loro condizioni di lavoro, salvo soccombere alle loro pesanti intimidazioni; al volontariato laico e cattolico, fattivamente e quotidianamente impegnato ad alleviare le condizioni fisiche, morali e di vita di tanti lavoratori vittime di una così intollerabile situazione.
Spezzare le catene ci aiuta, allora, a riflettere.
In primo luogo, sul fatto che noi, cittadini consumatori, siamo chiamati ad un impegno. Se vogliamo, davvero, che le catene siano spezzate, non dobbiamo mai stancarci di conoscere la realtà, nelle sue mille facce. Tra queste, il fatto che c’è un filo rosso che lega il grave sfruttamento lavorativo, certe presenze mafiose nella filiera agroalimentare e certi settori della GDO. Per carità, guai alle generalizzazioni ed alle semplificazioni. Se è vero che se tutto è mafia niente è mafia, non può essere vero che dove c’è caporalato e grave sfruttamento lavorativo, lì c’è sempre mafia (o camorra, o ‘ndrangheta). Ma la verità non sta neppure nella negazione assoluta di questo rapporto, che -invece- alle volte è presente e, perciò, quando esiste, va fatto emergere con le indagini, i processi e l’impegno civile di chi lo denuncia e lo scova, non importa se partendo dai campi oppure dai banchi di un supermercato.
Ma conoscere la realtà significa anche occuparsi delle difficoltà che possono esserci nel lavoro di forze dell’ordine e magistrati ed, eventualmente, affiancare questi ultimi nella richiesta di nuovi e più efficaci strumenti operativi. La nuova legge segna degli indiscutibili passi in avanti nella lotta al caporalato ed allo sfruttamento lavorativo: è un punto, questo, sul quale si sono trovati d’accordo giuristi ed ampi settori della politica e del mondo delle imprese, concordi anche sul fatto che di essa l’autorità giudiziaria sta facendo un’applicazione equilibrata che toglie fondamento alle, spesso strumentali, preoccupazioni espresse, dal giorno della sua entrata in vigore, in alcuni ambienti.
Ma si può fare di più e meglio. Lo dice, nel volume, il contributo del dott. Giuseppe Gatti, magistrato che della materia ha esperienza. Si tratta, prima che di altro, di stimolare i contributi alle indagini non tanto degli eventuali caporali e imprenditori pentiti, quanto delle vittime di caporalato e sfruttamento: oggi, inevitabilmente soggette al timore di perdere il lavoro, se abbandonate al loro destino di soggetti deboli, esposte a pesanti minacce qualora escano allo scoperto per dire la verità nei processi; ma domani, se sostenute dall’intervento dell’Autorità dello Stato, che garantisca loro di non rimanere disoccupati, destinate a divenire fonti insostituibili per l’accertamento dei fatti.
Lo aveva sottolineato, nel volume “Agricoltura senza caporalato” ed. Donzelli Francesco Gianfrotta, componente del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare di Coldiretti[1]:
«La proposta di riforma della materia elaborata dall’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare aveva,…, l’ambizione di esplorare vie nuove.
Punto di partenza imprescindibile deve essere la consapevolezza delle peculiarità del caporalato: non solo un reato, ma un fenomeno che ha connotazioni che riguardano piani diversi, …, ruotanti –tutti- intorno ad un rapporto di lavoro non solo non conforme alle disposizioni vigenti, ma anche –nella sostanza- a dir poco fortissimamente squilibrato. Il lavoratore non è solo il soggetto debole, come accade di regola nel rapporto di lavoro subordinato. Egli è anche la vittima diretta di una serie di situazioni tanto oppressive quanto odiose, tanto incivili quanto conseguenza della sua condizione di assoluta indigenza e di disperazione esistenziale: di tutto ciò altri profittano brutalmente e cinicamente.
Anche di questi ultimi aspetti occorre, allora, darsi carico. In che modo? Dando coraggio e fiato anzitutto (ma non solo) alle vittime. A queste ultime deve offrirsi, quale premio per le notizie da loro provenienti, utili a far cessare le gravi illegalità subite, la prospettiva seria (cioè effettiva, reale) di non pregiudicare definitivamente, con il loro comportamento di collaborazione con le Autorità, il proprio futuro lavorativo, ed anzi di vederlo rinascere presso altra azienda, finalmente in una cornice di legalità.
Dunque, una premialità doppiamente innovativa, non solo perché prevista a favore di soggetti diversi dagli imputati (le vittime ed anche soggetti terzi rispetto al rapporto di lavoro considerato), ma anche per il suo contenuto. Essa, infatti, si sostanzierebbe in benefici inediti e la sua realizzazione sarebbe assicurata dall’intervento nel procedimento degli uffici della Prefettura, in una cornice di regole di favore non solo per chi ha collaborato, ma anche per i suoi futuri datori di lavoro.
Ora, non v’è dubbio che l’introduzione di una disposizione quale quella proposta avrebbe richiesto, da parte del legislatore, una scelta coraggiosa. E tuttavia due paiono le ulteriori osservazioni da svolgere al riguardo.
In primo luogo, la disposizione proposta avrebbe avuto un obiettivo pregio: costruire condizioni concrete di favore per una affermazione della legalità su vasta scala, rompendo quella situazione di omertà necessitata, tipica di ambienti e rapporti caratterizzati dall’approfittamento e dalla sopraffazione in danno di chi non ha pressoché alcuna possibilità di resistere.
In secondo luogo, nel nostro ordinamento vi è già un precedente analogo. L’art. 18 del D. L.vo 25-7-1998, n. 286 (“Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) prevede, come è noto, che lo straniero che risulti vittima di accertate situazioni di violenza o grave sfruttamento e sia in pericolo per la sua incolumità “per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione” dedita alla commissione di gravi reati (quelli in materia di prostituzione o quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza), o per effetto “delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio”, possa beneficiare di un permesso di soggiorno che gli consenta “di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale”. Si tratta di una disposizione, all’evidenza, accomunata a quella proposta dall’Osservatorio dalla stessa filosofia ispiratrice. Entrambe puntano a rompere il muro di omertà tra vittime e carnefici, tipico di situazioni ad alto tasso di presenza criminale, grazie ad una positiva sinergia tra indagine giudiziaria e processo, da un lato, e competenze amministrative, dall’altro.
Ma soprattutto: l’art. 18 del D. L.vo in materia di immigrazione –anche questo è noto- ovunque applicato ha dato ottima prova. Esso ha consentito di avviare tantissime indagini giudiziarie e celebrare altrettanti processi conclusisi con condanne a pene severe per chi si è macchiato di gravissimi delitti: dalla tratta delle donne straniere, alla riduzione in schiavitù, alle più gravi forme di sfruttamento della prostituzione. Un motivo in più per avere il coraggio dell’innovazione anche in tema di contrasto al caporalato ed alle altre forme di grave sfruttamento lavorativo».
Sono questi, allora, i temi di un possibile impegno che, ancora una volta, non può che essere a tutto campo e di tutti (politica, istituzioni, società civile), se davvero si vuole che le catene siano spezzate.
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