C’era una volta un Paese che poteva contare su quattro o cinque quotidiani cosiddetti seri: organi di informazione nazionali che cercavano di mantenere una deontologia certa, senza cedere alla logica dello scoop ad ogni costo. Una seria informazione giudiziaria, cronache parlamentari impeccabili, articoli di terza pagina da leccarsi i baffi, direttori come Dio comanda anche se non sempre “perfetti” (e meno male) – da Montanelli a Pannunzio fino a Ferrara e De Bortoli − cronache sportive scritte da penne forbite come Brera e Minà… Insomma, il quotidiano era, assieme al caffè, il primo atto della giornata pubblica.
Venne poi, negli ultimi vent’anni del secolo scorso, la Grande Rivoluzione Digitale. Più sconvolgente della Rivoluzione francese (perché induce cambiamenti antropologici), più efficace della Rivoluzione industriale (perché ha rottamato la fatica fisica dal lavoro), più incisiva del Sessantotto (perché ha radicalmente cambiato il modo di rapportarsi di noi tutti). La stampa ha preso una botta da orbi: le vendite si sono dimezzate dal 1990 al 2008, quando la crisi dei subprime statunitensi (ricordate la Lehman Brothers?) ha rosicchiato un altro terzo delle vendite, eliminando i “piccoli” concorrenti senza ideologia, e riducendo a espressione di nicchie minori quelli piccoli con idee da veicolare.
È poi venuta la pandemia (e la guerra in Ucraina come ciliegina sulla torta) a dare un ulteriore scossone alla carta stampata, ma ancor più alla versione online dei grandi quotidiani nazionali. La carta sembra ormai aver raggiunto il fondo nelle cifre della loro diffusione, anche se qua e là vi sono segni di ripresa. Bene o male, sulla carta stampata, forse per l’antico riflesso del verba volant, scirpta manent, una certa contenutezza viene mantenuta, anche se la serietà di un doppio o triplo controllo delle fonti, unica vera garanzia di un giornalismo serio e impeccabile, sembra ormai qualcosa di nostalgicamente lontano: basta che un’agenzia di un certo peso pubblichi una notizia per considerarla veritiera al 100 per cento, quindi diffusibile.
I siti web dei quotidiani nazionali, invece, hanno subito una botta da orbi, soprattutto per la concorrenza dei social e delle loro nature mutanti: dal Facebook per contattare gli amici e affermare le proprie idee con tante parole e poche immagini, come uno speakers’ corner a dimensione planetaria, si è passati al WhatsApp che personalizza ulteriormente i messaggi e li moltiplica come un immenso bocca/orecchio, all’Instagram che valorizza a dismisura le immagini e riduce le parole, a TikTok, che trasforma tutto in un gioco di brevi video leggeri e mutanti. Oggi FB fa il verso a TikTok e cerca di proporre il Metaverso, Instagram perde pezzi e cerca di adeguarsi aprendo ai video, WhatsApp fatica a resistere a chi vorrebbe renderlo più aperto alle relazioni molteplici e volatili.
Oggi, non sul quotidiano-faro di Milano, ma anche su quello di Torino e di Roma, leggevo di un Beppe Sala, sindaco dei meneghini, che non è messo in evidenza per una qualche sua presa di posizione politica in vista delle elezioni, ma perché cambia casa e va ad abitare con la sua compagna. Totti e Blasi spopolano in un feuilleton che si mescola alle notizie della guerra in Ucraina. Poi fa capolino un cagnolino che fa le bizze contro un serpente, tra una news sul tasso di inflazione e una sul diritto dei lavoratori precari dell’agricoltura a ricevere i 200 euro già distribuiti ad altre categorie. Poi, guarda un po’, Fedez e Ferragni mostrano il cantiere della loro nuova villa, mentre Egonu cambia partner non importa di che sesso sia, a sandwich su un Draghi che cerca di completare il percorso del PNRR. Il fatto è che ormai la posizione dei vari articoli non viene determinata dalla linea editoriale o dalle scelte del direttore, ma dagli algoritmi, che mettono in alto nei siti i pezzi che attirano più visitatori.
Sarà che l’informazione ha da essere più leggera, fruibile, tempestiva, breve… Ma navigate un po’ sui siti di Le Monde, della Frankfurter Allegemaine, del Guardian… E vi sembrerà di essere ripiombati in un mondo improvvisamente un po’ più grigio, ma ancora serio. (Mi scusino i nativi digitali − che cerco ogni giorno di capire, talvolta con successo altre volte meno −, ma credo che qualcosa di buono i vecchi quotidiani seri e un tantino noiosi che l’avessero).
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