Continuano a susseguirsi, giorno dopo giorno, le notizie preoccupanti in merito alla condizione delle Alpi e in particolare dei ghiacciai. La più tragica è stata quella della Marmolada, dove il 3 luglio scorso il distacco di una slavina con un fronte di 300 metri ha provocato 11 vittime; seguita, un paio di settimane dopo, dall’apertura di un nuovo crepaccio di circa 200 metri di lunghezza – questa volta senza alcuna persona coinvolta, essendo l’area chiusa. Sempre nello stesso periodo, sulla poco distante Moiazza, è caduto un grosso pinnacolo – anche questa volta per fortuna senza vittime; ed episodi di minore entità si sono verificati anche in altre zone delle Dolomiti e nel resto delle Alpi.
Intendiamoci: slavine e crolli di roccia ci sono ogni anno, è parte di ciò che naturalmente accade nelle montagne, e certo non è la prima volta che ci sono vittime. Tuttavia gli episodi di quest’estate hanno suscitato particolare allarme per la loro frequenza ed entità, considerata segnale inequivocabile non solo del ritiro dei ghiacciai – noto già da molti anni, e sempre più rapido – ma anche dello scioglimento del permafrost – il ghiaccio più “di profondità”, se così lo vogliamo chiamare, che tiene insieme terra e rocce alle alte quote.
A causa delle temperature eccezionalmente alte che si sono registrate, la cosa ha colpito in maniera inedita anche la coma più alta del nostro Paese: il Monte Bianco, che con i suoi 4800 metri era sempre stato relativamente “al sicuro” dall’innalzamento della quota dello zero termico – ossia l’altitudine in cui, in aria libera, la temperatura raggiunge lo zero. Questa volta, invece, la quota ha superato i 4000 metri, arrivando a coinvolgere tutto il massiccio. E così autorità francesi, a causa delle frequenti cadute di pietre che si verificano sia di giorno che di notte – e solitamente si sale infatti con il buio per evitarle, approfittando del fatto che la temperatura è ancora sotto lo zero – hanno “sconsigliato” la salita sul loro versante, e le guide hanno sospeso le escursioni. Ma non va meglio dal versante italiano: le guide di Courmayeur, che già da qualche anno hanno rinunciato a percorrere la via dei Trois Monts a causa dell’aprirsi di numerosi e imprevedibili seracchi, ora sconsigliano anche la via normale dal Rifugio Gonella (peraltro chiuso per mancanza d’acqua), ritenendo percorribile – ma comunque sempre con il rischio di caduta di sassi a causa del disgelo – solo la via del Gouter. Diverse cordate hanno rinunciato alla salita, visto il pericolo di rimanere vittime di slavine e simili.
Allargando lo sguardo, comunque, le cose non vanno meglio: persino sulla catena montuosa più alta del mondo, l’Himalaya-Karakoram, lo zero termico ha toccato quota 6500 metri. Il noto alpinista italiano Marco Confortola ha infatti comunicato di aver lasciato il Nanga Parbat, uno degli ottomila, a causa delle continue scariche di ghiaccio e sassi. Con lui anche l’alpinista Marco Vielmo, che ha scritto: «Noi siamo dalla parte della prudenza e non della follia. La montagna ha cambiato volto, ora non vuole nessuno e noi la rispettiamo».
E in effetti questo è un tema ricorrente nelle riflessioni di molti alpinisti, e di diverse sezioni del Club Alpino Italiano (Cai): siamo di fronte a cambiamenti che non durano una sola stagione, ma che sono strutturali, e che rendono urgente ripensare il modo in cui frequentiamo la montagna. E chi obietta che molto spesso la frequentazione è stata indiscriminata per ragioni economiche, puntando sul turismo di massa, ora ha come argomento a suo favore anche la fuga che pare registrarsi da molte località: il presidente degli albergatori bellunesi, Walter De Cassan, ha lamentato come dopo la tragedia della Marmolada stiano fioccando le disdette anche là dove è possibile frequentare i sentieri senza pericolo. A causa di un tam tam mediatico scorretto, a suo dire, e questo è senz’altro vero; ma è altrettanto vero che la montagna presenta sempre il conto a chi non la rispetta.
Intanto la Protezione Civile ha manifestato l’intenzione di procedere ad una mappatura dei ghiacciai italiani, così da individuare le zone a rischio; e intervenire monitorando, segnalando i pericoli, ed eventualmente prendendo i provvedimenti necessari.
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