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Sri Lanka: assalti alla casa presidenziale

di Ravindra Chheda

- Fonte: Città Nuova

Sri Lanka – la Taprobana greca, Serendib araba, Ceilão portoghese e Ceylon inglese – la perla dell’Oceano Indiano è di nuovo in profonda crisi: il venir meno del turismo a causa della pandemia, le lotte interne e la corruzione dei clan al potere hanno ridotto alla fame la popolazione dell’isola.

 

Sri Lanka proteste (AP Photo/Eranga Jayawardena)

In questi giorni, accanto allo scempio causato dall’assurdità del protrarsi del conflitto russo-ucraino, abbiamo assistito alle scene del conflitto interno che si sta consumando nello Sri Lanka. In un contesto, almeno fino ad ora, violento ma senza vittime – sono rimaste ferite una trentina di persone.

La popolazione di Colombo, capitale dello Sri Lanka, ha invaso piazze e strade ed è arrivata al palazzo presidenziale, costringendo ad una fuga precipitosa il presidente Gotabaya Rajapaksa, e, più tardi, invadendo anche alla sua residenza privata.

Le scene di dimostranti che si fanno selfie sul letto presidenziale o che si tuffano nella piscina e circolano impunemente e liberamente nel principesco palazzo in stile coloniale hanno richiamato alla memoria l’assalto al Campidoglio perpetrato dai seguaci dell’allora ancora presidente Donald Trump. Ovviamente, sebbene altrettanto grave, l’assalto popolare non ha richiamato l’attenzione dei media tanto quanto quello accaduto a Washington. Ma a Colombo a protestare non era solo una metà della nazione, ma tutto un Paese ridotto ormai alla fame.

Chi conosce lo Sri Lanka sa quanto sia, come vuole una leggenda, una perla caduta nell’Oceano indiano. Un’isola di bellezza incomparabile con una popolazione altrettanto unica nel suo genere. Etnie di rara bellezza e grazia, capacità di sopportare sofferenza e dolore, come una guerra civile combattuta per 25 anni fra guerriglieri Tamil ed esercito regolare. Capacità indomita di rinascita, come dimostra quanto accaduto non solo dopo il conflitto, ma anche dopo lo tsunami del dicembre 2004 che fece un numero imprecisato di vittime. Non si conosceranno mai, ma furono senz’altro superiori alle ventimila.

L’isola era riuscita a riprendersi anche grazie ad aiuti e finanziamenti internazionali, arrivati per la ricostruzione e la ripresa dell’economia dopo le due tragedie, quella bellica e quella naturale. Lo stesso turismo, vera ed unica risorsa economica dell’isola, aveva ripreso aprendo una finestra di speranza, chiusa nuovamente dopo gli attentanti che hanno seminato terrore e decine di morti nel giorno di Pasqua 2019, e con lo scoppio della pandemia. Il Paese ha, così, iniziato un crollo progressivo a livello economico dal quale non è riuscito a riprendersi. Oggi, la gente è letteralmente ridotta alla fame, senza la possibilità di acquistare cibo, carburante e costretta a far uso della legna (quando e se si trova) per combustione casalinga.

La reazione esplosa in questi giorni viene da lontano ed ora è interamente attribuita alla famiglia Rajapaksa, un vero clan alla guida del Paese. La cosa non è nuova e, anzi, è una delle caratteristiche del sub-continente indiano dove, a cominciare dall’India, il potere politico è stato monopolizzato dal cosiddetto ‘family raj’, il potere di un gruppo familiare. In India, i Nehru-Gandhi, in Pakistan i Bhutto, e in Bangladesh ancora l’attuale presidente Sheik Hasina.

Lo stesso Sri Lanka ha vissuto per decenni all’ombra della famiglia Bandaranaike, il cui capostipite come leader politico venne ucciso da un monaco buddista sessant’anni fa. La moglie e la figlia hanno addirittura governato negli anni Novanta del secolo scorso come presidente e Primo ministro. Simile la situazione con i Rajapakasa, clan familiare al potere in diversi modi e posizioni dal 2004 al 2015 e, successivamente ritornati al controllo della nazione nel 2018 con la vittoria nelle elezioni amministrative, e, l’anno successivo, in quelle presidenziali.

In quell’occasione si è riconfermato il potere dinastico sotto la presidenza di Gotabaya Rajapaksa con il fratello Mahinda Rajapaksa come premier e il figlio, Lakshman, come ministro dello Sport; il fratello Basil ministro delle Finanze e altri parenti posizionati in posti-chiave dell’amministrazione civile e della struttura militare. Di fatto l’isola è diventata ostaggio degli interessi del gruppo familiare Rajapakasa che ha governato in modo incompetente e secondo i propri interessi, gestendo alla luce di questo, anche i rapporti con i due potenti vicini di casa, India e Cina.

Inoltre, la gestione recente dei Rajapakasa oltre al ‘default’ economico, ha cercato di reprimere il crescente dissenso, facendo leva ancora una volta sulla sull’identità singalese e buddhista della maggioranza che già aveva portato alla guerra civile. Come parte di questa strategia, il clan familiare ha condiviso proprietà e interessi economici e finanziari con i vertici delle forze armate e con i servizi di sicurezza.

Il Paese, dunque, non è che la vittima della rapacità senza scrupoli di famiglie che gestiscono proprietà, potere e controllo dei media. Il Programma alimentare mondiale ha affermato recentemente che il 30% della popolazione non è in grado di acquistare cibo per la sopravvivenza quotidiana.

Si comprende, quindi, l’esasperazione della gente e la rivolta popolare. Non è sfuggita anche la presenza di monaci buddhisti nel corso delle manifestazioni. Per la forte religiosità della gente, la presenza dei monaci è una chiara legittimizzazione dell’opposizione politica e delle manifestazioni. Il Paese, dunque, è in bancarotta senza più valuta per acquistare carburanti, latte, gas da cucina e altri generi di prima sussistenza che non sono prodotti sull’isola. La corruzione, inoltre, non solo ha rovinato il Paese ma rappresenta una minaccia per un eventuale tentativo di salvarlo.

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