La giustizia è un cammino da percorrere, è esigenza insopprimibile, è attesa di risposte, ma ancor prima è criterio che informa o dovrebbe informare il nostro agire. Un significato dunque non univoco, eppure dalla sua definizione dipendono valori, principi e regole, dalla pratica della giustizia decide dei nostri comportamenti e da essa dipende la stessa pace sociale nella convivenza.
Potremmo allora concordare che l’altro termine che ci interpella, il diritto, non è solo “diritto delle regole” (Zagrebelsky), è anche attività che si esplica come relazione; lo è nella quotidianità dei nostri rapporti che incrociano la concretezza della vita e i volti delle persone.
Sappiamo bene che le norme non bastano a se stesse per accordare giustizia, e se ci chiedessimo che cos’è e come definirla, ci troveremmo a trasformare la domanda in ricerca, se è vero che la sua misura non coincide con una “questione essenzialmente di definizione e di applicazione di regole processuali” (Clarich).
Perché oggi anche i mass-media ‘raccontano’ drammi umani e vicende giudiziarie? Forse quel concetto di “giustizia giuridica”, che si prospetta nel raggiungimento di un risultato attraverso procedure date, non esaurisce nel caso concreto la risposta di giustizia o non corrisponde all’attesa di autentica giustizia?
Eppure, il compito del diritto è quello di assumere il conflitto e l’ingiustizia, al fine di gestire il primo e affidare al giudice, come terzo, il compito di ricondurre le pretese e le violazioni nel recinto delle norme per riaffermare le regole del vivere sociale, e in esse accordare risposte alle tante ingiustizie e alla condanna la stigmatizzazione di ciò che è male e ingiusto con conseguente soddisfazione per la vittima.
Ma è così nella realtà?
L’immagine che ricorre nel diritto fa della giustizia, piuttosto, il “luogo dello scontro, o della lite, ove il dialogo viene reciso” e le fratture radicalizzate (Luciano Eusebi). Proviamo allora ad abbandonare, almeno per qualche istante, la frequente riduzione della giustizia alla sua amministrazione, nell’esercizio della funzione giudiziaria o, ancor meno, a farla coincidere con l’esercizio di un potere.
Ricorriamo per questo a un’espressione efficace che fa della giustizia un’esperienza da ricercare come l’altro lato del diritto (Zagrebelsky). Quali elementi la renderebbero tale? Nel suo excursus sulla giustizia, nell’ambito di diverse concezioni, Gustavo Zagrebelsky sottolinea che riconoscere agli altri «la legittimità della pretesa di giustizia significa condividere umanità e dignità […]; significa bandire sopraffazioni, violenze e umiliazioni tra gli uomini sostituendo l’ascolto», fino a «risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricomporre le fratture e riabilitare tanto le vittime» quanto i colpevoli (Sudafrica).
Il linguaggio cambia per trovare parole quali “reintegrare il diritto e quindi il rapporto”, a conferma che la violazione della legge, che si spinge fino al delitto, è una ferita nelle relazioni e non solo fra le parti, offeso e reo, ma anche nel tessuto sociale.
Pensiamo alle parole di Piero Calamandrei, membro dell’Assemblea Costituente, allorché spiegava in uno scritto pubblicato solo di recente, che il diritto «non può essere affermato in me senza essere affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; […] non può essere offeso nel mio simile senza offendere me»!
Ma che dire dinanzi all’abisso del “male” nell’umanità (l’imperdonabile direbbe Hannah Arendt), alle ferite laceranti e ai tanti muri eretti dagli uomini nel corso della storia?
Dinanzi all’umanità che cerca giustizia, ma vive di ingiustizie? Al Consiglio Nazionale Forense il primo presidente di Cassazione Pietro Curzio nel ribadire l’urgenza di un diritto che valorizzi la giustizia affermava: «La norma si deve sempre confrontare con l’umanità» e qui, è superfluo ribadirlo, persona umana è l’autore del fatto, persona umana è la vittima.
Questo ci permette forse un “primo passo”: una visione della Giustizia che sa guardare alla persona e alla sua umanità. Non dunque un concetto astratto o una categoria accanto alle altre, quale ad esempio legalità, senza nulla togliere di certo al valore di quest’ultima. Rendere giustizia può significare guardare nella sua concretezza ogni situazione, anche la più negativa, come un percorso per dare o restituire alla persona non solo qualcosa, ma anche se stesso. Non si tratta di sminuire la gravità e la responsabilità per condotte illecite, piuttosto assumere il problema e ricercarne la soluzione, in un cammino di umanizzazione, sempre necessario e mai concluso nel recupero delle relazioni.
Tempo fa, nel prendere visione di una recente pubblicazione, mi è capitato di riflettere su quell’icona che nella locandina relativa a questo evento richiama la figura femminile, con la quale si rappresenta la Giustizia, spesso identificata con Dike, (figlia di Themis dea garante dell’armonia universale), garante dell’ordine divino nelle istituzioni umane, e raffigurata come vergine saggia, nemica della menzogna, simbolo diffuso in prossimità delle Aule dei Tribunali o sui manuali di diritto. Ma non mancano altri elementi simbolici, che ci interrogano.
La bilancia: con quale funzione? Constatare le ragioni che pesano di più agli effetti del pronunciamento in sentenza, o piuttosto equilibrarle, onde evitare la prevaricazione del più forte? Ma la “giustizia” nell’iconografia impugna la spada, simbolo dell’aspetto esecutivo, simbolo di sovranità, nel quale giustizia e forza si incontrano.
E la benda? Simbolo di “imparzialità” di una Giustizia giusta che non guarda in faccia a nessuno, o immagine di un’irresponsabilità laddove la Giustizia dovrebbe piuttosto tenere gli occhi ben aperti per vedere dove stanno torto e ragione?
Un altro particolare si aggiunge, e forse il meno evidente e più trascurato, quello del ginocchio nudo: con quale significato? Rispecchia, secondo la lunga tradizione, quel piegarsi degli ultimi a chiedere clemenza dinanzi alla giustizia che pesa e punisce? Oppure, quel ginocchio segnerebbe la sconcertante duplicità che domina i modi di vedere diritto e giustizia, tanto da opporre a Dike, la vergine saggia, nemica della menzogna, la “donna di tutte le corruzioni” (Adriano Prosperi), nella lettura proposta dalle vittime della giustizia?
L’iconografia potrebbe forse riguardare il passato, ma domande e ambiguità restano anche per l’oggi, specie sul piano più specifico della Giustizia penale.
Qui, nel prospettare e definire (Mazzucato) la giustizia dell’incontro (261) si è osservato di recente: «I conti non tornano, la bilancia non funziona», perché la sofferenza della pena non appare mai correttamente “bilanciata” al reato commesso, e “smisurate” restano le conseguenze del fatto per chi lo subisce.
Su quella bilancia il dolore inflitto al reo sembrerebbe terribilmente poco, e sempre troppo quello che si aggiunge per le vittime.
Prende da qui le mosse uno degli studi più consolidati sul contributo che la giustizia riparativa può offrire, ma prima di dire una parola ancora su questo, vorrei accennare a un’ultima simbologia, non tanto raffigurata, ma richiamata dallo stesso Zagrebelsky (384): «L’immagine della bilancia – cito – è stata avvicinata a quella della croce: due bracci, in entrambi i casi, che abbracciano il mondo. Ma che cosa reggono?».
Una figura della vittoria del Cristo o una figura della sconfitta? L’autore non dà risposta, forse perché lì su quella Croce, come su ogni croce, resta solo l’uomo, ogni uomo, vittima o colpevole, ma entrambi compresi in quelle braccia.
È in fondo l’umanità a cui hanno guardato anche i Padri Costituenti: quella che ci accomuna, inscritta nella dignità che neanche nel colpevole si cancella, e che, anche se perduta, può essere ritrovata.
Ma basta oggi il modello delle forme alternative alla giustizia ordinaria (ADR) per aprire all’incontro fra le parti in conflitto e ricostruire le relazioni oltre la ferita e fino alla riconciliazione (Restorative Justice)? Dove trovare il punto di equilibrio e il senso più autentico di una vera riparazione all’offesa?
Troppe volte, si annota, è trascurato l’intero impianto della nostra Costituzione, dove emerge una società solidale, fondata su diritti inviolabili, ma anche su doveri inderogabili di solidarietà, perché a ogni essere umano sia garantita la possibilità di far maturare e sviluppare la propria personalità all’interno di comunità fondate su legami sociali.
Nello specifico della pena, se ripercorriamo attraverso i Lavori preparatori i contenuti che nell’art. 27, al 3° comma Cost. ne delineano il fondamento, le parole diventano inequivocabili:
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Anche qui, come già per il primo comma sulla personalità della responsabilità penale, è emerso l’intento dei Costituenti di evitare scelte precostituite nell’ aderire all’una o all’altra Scuola di pensiero, classica o positiva, per far emergere piuttosto l’idea che la persona umana deve essere tutelata nella sua integrità, prima ancora che prendere posizione sulla funzione della pena come tale.
Un’indicazione, in vista della riorganizzazione da parte del futuro legislatore del sistema penitenziario; ma anche un limite all’afflittività che, pur nella proporzionalità delle pene rispetto al reato commesso, non consente trattamenti disumani, pena la compromissione di una finalità rieducativa, peraltro da perseguire.
Resta, evidentemente, la libera adesione di chi condannato sconta la pena e qui si apre, per la fase dell’esecuzione, l’importanza di quella rilettura del reato non tanto o non solo come violazione della norma, ma come evento relazionale (Zagrebelsky, 296), perché se anche l’oggetto della norma è un bene giuridico tutelato dall’ordinamento e offeso dal reato, più vera è la relazione tra quel bene e la persona che ne è titolare, e diventa vittima dell’offesa.
Se l’orizzonte della giustizia è riparare piuttosto che distruggere, ricostruire un rapporto incrinato o spezzato piuttosto che reciderlo, la pena non può esaurirsi in una cella, o diventare un tempo vuoto, piuttosto un percorso che lo stesso papa Francesco ha voluto indicare nella lettera ai partecipanti al XIX Congresso internazionale della AIDP e del III Congresso dell’Associazione Latino-Americana di Diritto Penale e Criminologia, (30 maggio 2014): «esiste un’asimmetria necessaria tra il delitto e la pena […] la vera giustizia non si accontenta di castigare semplicemente il colpevole. Bisogna andare oltre e fare il possibile per correggere, migliorare ed educare l’uomo affinché […] affronti il danno causato e riesca a reimpostare la sua vita senza restare schiacciato dal peso delle sue miserie».
Penso ai momenti vissuti in un carcere di massima sicurezza dove anche per i condannati all’ergastolo si è avviato, per chi lo volesse, un percorso di studi di vario livello, anche universitario. Quel giorno, doveva sostenere l’esame con me un esponente di spicco di uno dei più potenti clan della criminalità organizzata. Il clima nella biblioteca, sede dell’esame, con tanti altri condannati che assistevano disposti a semicerchio, si prestava a varie chiavi di lettura.
In un attimo, ricordo a me stessa, quasi in una sfida fra teoria e prassi, quell’umanità che anche nella pena va custodita e riconosciuta, nella dignità di chi è pur sempre persona, anche se autore di efferati delitti. Quante volte lo avevo spiegato agli studenti! Ma altra è la realtà.
Mi faccio coraggio e iniziamo l’esame, che fa emergere sul finire una riflessione che mi colpisce: l’esaminando, pluriergastolano, afferma: «l’uomo del reato non è quello della pena», quasi a far intravedere la possibilità, che a nessuno può essere negata, di poter tornare uomini e padri per dare al proprio figlio, come in quel caso, un’altra immagine di sé.
Quella mattina, la nostra presenza genera altri brevi incontri; uno dei condannati, impossibilitato a studiare ma capace nella pittura, mi conduce per la biblioteca per mostrarmi i suoi dipinti esposti e mi racconta:
Conosce Diogene (filosofo del IV sec. A. C.)? Girava, in pieno giorno con la lanterna, gli serviva per cercare l’uomo. Anche io mi son trovato a cercare, ma ho capito che non era l’uomo, cercavo me stesso.
Lì ho compreso, al di là della mia veste istituzionale, quell’orizzonte che la Costituzione ascrive alla pena: la capacità di tendere a una finalità rieducativa, principio che il legislatore dovrebbe non dimenticare nella possibilità di un “ritorno” al senso di comunità.
Espiare un debito non basta a risanare una ferita né può restituire ciò che di una vita umana è stato portato via. Occorre un’esperienza “altra” per riempire un vuoto, l’esperienza di relazioni capaci di accordare anche al colpevole una rinnovata dignità, riconquistandosi a se stesso e risanando nella misura possibile quelle relazioni che ci appartengono, in quanto persone.
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