Doveva accadere, ed è accaduto un mese giusto dopo l’inizio delle ostilità da parte di Vladimir Putin contro l’Ucraina: la guerra che sta devastando il Paese scende dalle prime alle seconde notizie dei giornali. A scacciarla è stata un’altra battaglia, irrimediabilmente persa dagli araldi dell’azzurro italico, dietro a una palla di cuoio, contro i “piccolissimi” macedoni del Nord. Un mese intero in apertura dei giornali era già stato un exploit fuori dal comune, dopo la “noia mediatica” del virus: con la macchina macina-notizie che sono oggi i nostri media, in particolare quelli digitali o la versione digitale dei media tradizionali, occupare la prima pagina – la Une, dicono i francesi – per 30 giorni consecutivi ha avuto dello spettacolare. La guerra sta effettivamente cambiando la nostra vita, così come appena ieri aveva fatto la pandemia.
Stando alle regole dei media, si resta in quella posizione solo se una notizia ha un reale impatto sull’opinione pubblica, cioè se suscita entusiasmo o paura. Evidentemente la questione ucraina ha scoperchiato il sarcofago delle nostre angosce. Qualche giorno fa, ho avuto modo di parlare a una platea di una cinquantina di giovani universitari sulla guerra di Kiev e di Mosca. Raramente ho meritato un’attenzione tale nelle tante conferenze svolte: ho capito un po’ meglio quali paure si annidino nei cervelli e nei cuori dei più giovani.
Si tratta innanzitutto di timore nell’insicurezza del futuro: potrò farmi una famiglia? Val la pena mettere al mondo dei figli quando il futuro è più che nebuloso? Avrò ancora un lavoro? E via dicendo. Dopo la precarizzazione del lavoro, nascosta dall’eufemismo “flessibilità del lavoro”; dopo il trionfo dei diritti umani estremi, a proteggere quella che si definisce “fluidità di genere”; dopo la sconfitta senza se e senza ma della primazia della comunità sull’individuo; dopo l’emergere degli sconquassi imprevedibili nelle loro conseguenze dell’aver vilipeso il Creato per decenni, senza scrupoli; e dopo la precarietà estrema della salute, evidenziata dal minuscolo virus scoperto a Wuhan, ecco che la guerra di Ucraina ha gettato alle ortiche anche una delle poche certezze che in Europa ci restavano dopo la Seconda guerra mondiale, cioè quasi 80 anni di assenza di conflitti sul nostro territorio (Balcani e Irlanda del Nord esclusi).
Per questi motivi, la guerra è rimasta in primo piano un mese intero. E ora, che succederà? Purtroppo, se non si riuscirà a raggiungere una qualche forma di tregua o di interruzione di fatto delle ostilità, le notizie della guerra torneranno in primo piano. Una guerra che mantiene i caratteri di un conflitto militare tradizionale, pur con armi sofisticate e spionaggi satellitari, ma anche con tradizionali bombardamenti a tappeto – ‘ndo cojo cojo, avrebbe detto Sordi −, con missili tirati fuori dagli arsenali – tanto vale usarli invece di condannarli alla rottamazione, anch’essi hanno bisogno di un lampo di notorietà, e tanto peggio se ci scappano degli “effetti paralleli” non voluti −, e persino con un assedio in stile medievale – quasi quasi si ritorna ai pentoloni di olio bollente scaricati sui nemici dall’alto delle mura −, attira sempre i nostri pruriti mediatici. Senza parlare delle lotte corpo a corpo tra milizie cecene e d’Azov.
Certamente, se la guerra scivolerà da queste forme tradizionali verso un conflitto biologico o nucleare, allora le prime pagine saranno d’uopo. Se ci saranno ancora prime pagine, o piuttosto si dovrà parlare di unica pagina. La paura dei giovani che ho incontrato, che credo corrispondano bene a quelle dei loro coetanei di tutt’Europa, si volge soprattutto alla paura del nucleare. Una paura a suo modo immateriale, più simile a quella del coronavirus che della guerra tradizionale, e perciò difficilmente controllabile. La paura di scomparire, di dover sperare in una benevolenza dei venti che non ci sbattono addosso le particelle radioattive, di dover abbandonare città e villaggi, di dover migrare per forza in altri continenti. Di dover rinunciare anche ai piccoli agi che fanno la nostra tranquillità, uno spritz con gli amici, una vacanza low cost a Barcellona, una bella macchina… Ma, soprattutto, la paura di dover sopportare una dose troppo pesante di dolori e precarietà. Ci si trova fragili, fragilissimi, piume nel vento. Appare lontanissimo il messaggio paolino, che vuole che la debolezza in Cristo diventi fortezza. Bisognerà comunque tornarci su.