Sono tante le guerre dimenticate, perchè lontane dal nostro vissuto. Spesso in luoghi desertici o nelle foreste tropicali. Eppure hanno tutte in comune la stessa crudeltà, lo stesso odio, lo stesso colore del sangue versato e le stesse grida di dolore della gente. Ogni guerra provoca orfani e bambini devastati dal dolore per la perdita dei loro cari. Le giovani generazioni in Europa se ne sono di nuovo rese conto: qualcosa ci fa percepire di essere un’unica umanità, in ogni luogo e in ogni tempo: il dolore, la precarietà. Come se ci fossimo svegliati dal torpore e dallo stordimento che il consumismo ci inietta ogni giorno nelle vene. E in mezzo a questo mare di dolore, parlare dei Rohingya non mi sembra fuori luogo, anzi, ci avvicina a questa gente, solo apparentemente lontana da noi.
È guardando in faccia la realtà, così cruda e violenta, che possiamo trovare la forza di pensare e, speriamo, anche di pregare e di piangere. Perchè ogni uomo, ogni donna fa parte della mia famiglia, della cerchia dei miei amici, anche se il colore della sua pelle è diverso e professa una religione diversa dalla mia. Tra poco potrei essere io al suo posto. Sui Rohingya ho scritto e continuerò a scrivere, perchè sono i perseguitati dei perseguitati (come Chin, Karen, Shan e Mon in Myanmar). Già, il Myanmar: una nazione praticamente in guerra da più di 70 anni, dal giorno dell’assassinio del generale Aung San, nel 1947, padre di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel della pace 1991 e attualemente in carcere con l’accusa di corruzione da parte del governo militare, al potere con un colpo di stato dal 1° febbraio 2021.
L’Amministrazione Usa del presidente Biden ha formalmente riconosciuto che il Tatmadaw, i militari del Myanmar (o Burma, il vecchio nome di epoca coloniale), hanno compiuto crimini paragonabili ad un genocidio, e crimini contro l’umanità (nel 2016 e 2017). Un annuncio importante da parte del segretario di Stato Antony Blinken, fatto durante la visita all’“United States Holocaust Memorial Museum” di Washington (che oltre alla Shoah documenta altre 7 atrocità compiute dall’uomo), cosa che l’Amministrazione Trump non aveva a suo tempo voluto riconoscere. Stavolta si indicano i crimini in Myanmar come “Uccisioni di massa, stupri e torture”.
L’annuncio, fatto lunedì 21 marzo, rappresenta un importante passo avanti in quanto inchioda diversi militari birmani che successivamente hanno preso parte anche al colpo di stato del 2021, quello che ha stroncato la giovanissima democrazia birmana. Un colpo di stato che ha seminato morte e incarcerazioni in Myanmar, e che non ha all’orizzonte una fine che possa dare speranza. Almeno fintanto che Russia e Cina non firmeranno una risoluzione contro i militari birmani al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Con la dichiarazione di lunedì scorso, gli Usa hanno riconosciuto otto gravi crimini e genocidi contro l’Umanità, e che i militari del Myanmar sono responsabili di uno di questi crimini. Le prove o le evidenze che il Dipartimento di stato statunitense ha potuto accumulare in questi anni sono schiaccianti e corroborate da testimonianze registrate e verificabili anche da fonti indipendenti rispetto al Governo di Washington. Il Dipartimento di stato ha anche stanziato un ulteriore milione di dollari per questa inchiesta, affinchè si possano raccogliere ulteriori testimonianze che provino la tesi, ormai internazionalmente riconosciuta, del genocidio dei Rohingya. Blinken ha anche annunciato che tutte le prove in possesso del Dipartimento di stato saranno trasmesse agli avvocati del Gambia che hanno aperto la causa presso il Tribunale internazionale dell’Aia. “Questo procedimento contro il Myanmar – come ha affermato l’avvocato Dawda Jallow che rappresenta l’accusa – è doveroso per opporsi ai genocidi, per non favorire chi commette genocidi e per prevenire l’impunità per quelli commessi”. E l’avvocato ha inoltre affermato di fronte ai giudici dell’Aia: “Queste violazioni alla convenzione contro i genocidi sono una macchia sulla nostra coscienza collettiva, e sarebbe da irresponsabili pretendere che non siano affari nostri”.
I Rohingya scacciati dalle loro case nel 2017 sono complessivamente circa 860 mila, e sono provvisioramente rifugiati in Bangladesh. Nel 2019, di fronte alla Corte dell’Aia, Aung San Suu Kyi difese i generali che oggi l’hanno messa in carcere e che minacciano di tenerla prigioniera fino alla fine della sua vita. Intanto, circa 2 mila profughi Rohingya sono stati trasferiti con la forza dal campo di Cox’s Bazar all’isola di Bashan Char, nel Golfo del Bangala: sono persone prive di documenti di riconosciamento e abbandonati senza misure sanitarie adeguate. Un dramma nel dramma.
La salute mentale di centinaia di migliaia di persone è minata sia da quanto hanno vissuto in Myanmar che da quanto stanno vivendo attualmente. Tra i rifugiati Rohingya sono molto frequenti i suicidi, come anche uccisioni sommarie e lotte tribali.
Dobbiamo ricordare i Rohingya, uno ad uno, insieme ai perseguitati dello Yemen, del Sud Sudan, della Siria e dell’Ucraina. Sono… tutti nostri, parte dell’umanità. Diceva Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, in una sua preghiera del 1949: “Signore, dammi tutti i soli...”. Non dimentichiamoli. Almeno possiamo ricordarli e, per chi ha fede, pregare per loro.