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Casus belli di Putin: come nei giochi dei bambini

di Michele Zanzucchi

- Fonte: Città Nuova

Michele Zanzucchi, autore di Città Nuova

È difficile scrivere di una guerra che già c’è (sposta mucchi di dollari e versa valanghe di falsità ovunque) ma che per il momento (per fortuna) non fa morti. Sembrerebbe di cogliere qualcosa di infantile nell’aria, se non fosse che si rischia grosso

Putin
Ukrainians attend a rally in central Kyiv, Ukraine, Saturday, Feb. 12, 2022, during a protest against the potential escalation of the tension between Russia and Ukraine. Russian President Vladimir Putin and U.S. President Joe Biden are to hold a high-stakes telephone call on Saturday as tensions over a possibility imminent invasion of Ukraine escalated sharply and the U.S. announced plans to evacuate its embassy in the Ukrainian capital. (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Dispetti, «guai a te» e bugie sono il sale dei litigi dell’infanzia. Proviamo a leggere da psicologi dell’età evolutiva le cronache sulla crisi tra Putin e l’Ucraina: rimarremmo impressionati dalla somiglianza con le scaramucce, le minacce e le menzogne degli attori che operano sullo scenario di crisi attuale, pare di avere dinanzi un manuale dei meccanismi psicologici che regolano l’aggressività dei bambini. Così è, la guerra − come dicevano Giordani e Prévert, Capitini e Gandhi − è un regredire collettivo nell’umanità delle relazioni, che tornano allo stato infantile. Lo ripetono all’infinito coloro che hanno il bene comune come orizzonte di vita.

Lo scenario bellico è menzognero nella sua essenza: si negano le ragioni dell’altro, si dà la stura alle frustrazioni represse, ci si accusa reciprocamente di falsificare la realtà, ecco la banalità del male, come ridirebbe anche oggi la Arendt. I bollettini di guerra provenienti dal Donbass, dalle frontiere tra Ucraina e Russia e Bielorussia, i dispacci diplomatici non fanno che ripetere all’infinito meccanismi già visti. Che da semplice gioco delle parti può mutare in tragedia se lo scherzare col fuoco diventa eccessivo perché le fiamme hanno appiccato il fuoco a un lembo del nostro mantello.

Così da Mosca assicurano che il ritiro delle truppe procede come da programma, ma la Nato è convinta dell’esatto contrario, come spiega il segretario generale dell’alleanza, Jens Stoltenberg. Sempre secondo la Nato, il Cremlino starebbe cercando il pretesto per attaccare, sta cercando il casus belli o, come dicono gli anglosassoni, la «bandiera rovesciata», cioè il pretesto – vero o falso che sia – per scatenare la macchina di guerra. Il ministro degli Esteri rurro, Lavrov, rassicura il suo omologo italiano, parlando di «isteria occidentale», un refrain usatissimo di questi tempi a Mosca. E circolano immagini di separatisti russi che avrebbero attaccato un asilo (a Stanytsia Luhanska), o di un rione occupato dai filorussi bombardato dai soldati di Kiev.

La via diplomatica non è ancora alla frutta, soprattutto gli europei fanno da pompieri (anche nei giochi d’infanzia i pompieri non mancano mai). Di Maio è stato a Mosca, per preparare una visita di Draghi che, comunque sia, ha un tale capitale di credibilità in campo internazionale da poter tentare il tutto per tutto. In questa guerra − peraltro già scatenata in campo digitale, commerciale, finanziario e diplomatico ma non ancora in campo militare −, l’Europa sta facendo di tutto per evitare il peggio, per ragioni innanzitutto di conti pubblici e di approvvigionamento energetico, lo si è già scritto: nessun contendente ha un vero interesse a sparare, salvo forse i mercanti d’armi, vecchia storia. Il continente che da quasi 80 anni non conosce guerre (salvo nei Balcani, in Irlanda del Nord e in pochi altri scenari locali) cerca ancora disperatamente di richiamare alla ragionevolezza i contendenti (Usa e Russia) lontanissimi geograficamente ma l’uno col fiato sul collo dell’altro. Come i bambini che si frappongono tra gli amichetti per dividerli.

p.s. Mi si perdoni per la prosa scherzosa, non c’è nulla di banale nelle iniziative diplomatiche di Draghi, Macron o Scholtz, e nemmeno nelle parole e negli atti di Putin e Biden, e del sempre più potente Xi Jinping (che gongola sempre più per le tensioni russo-statunitensi, vince comunque, senza sparare un sol colpo): la posta in gioco è alta, ognuno probabilmente cerca di fare del proprio meglio per evitare che il conflitto venga acceso, pur cercando di trarre profitto dalla tensione internazionale che sposta mucchi di miliardi nelle borse ipersensibili alla stabilità. Sempre sperando che un colpo di follia non getti benzina sul fuoco.

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