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Strappare lungo i bordi

di Edoardo Zaccagnini

- Fonte: Città Nuova

Luci ed ombre dell’ultima fatica del fumettista Zerocalcare (su Netflix)

Il problema (o semplicemente un difetto) di Strappare lungo i bordi – la serie animata del fumettista Zerocalcare, disponibile dal 17 novembre scorso su Netflix – non è il suo romanesco integrale, iperrealistico, sfrenato, fonte di una polemica nata dal fatto che, secondo alcuni, non tutto il parlato della serie si capisce bene e sarebbe stato meglio sottotitolare – in stile Gomorrai dialoghi e il flusso di coscienza del protagonista Zero (la cui voce è dello stesso Zerocalcare), dei suoi amici Secco e Sarah e della sua coscienza incarnata dall’armadillo con la voce di Valerio Mastandrea.

Anche aggiungendo i sottotitoli, comunque, sarebbe stato difficile tradurre, in questa narrazione in sei episodi da circa 15 minuti l’uno, quella radicalità verbale che va oltre il dialetto in senso stretto e include lo slang giovanile e tutta una terminologia da periferia: materia non semplice da italianizzare, per altro elemento prezioso di un progetto che (se non altro) registra con precisione le sfumature verbali giovanili della capitale in questi ultimi anni.

Tra l’altro viene da pensare che certe polemiche nascano dal successo di un prodotto: ne siano il segno, il certificato della sua crescente, rumorosa popolarità, com’è ormai netta quella di Strappare lungo i bordi, a una settimana circa dal suo sbarco sulla grande N rossa. Una sensazione, quest’ultima, mentre è certo che insieme a Speravo de morì prima (su Totti) e Vita da Carlo (su Verdone) l’approdo di Zerocalcare nel racconto televisivo ad episodi (al di là dell’esperienza di Rebibbia quarantine all’interno del programma Propaganda live durante la pandemia) possa essere considerato come il terzo capitolo di una trilogia ideale sulla romanità contemporanea nell’ambito della serialità.

Non è il romanesco, dunque, il problema, o il difetto di fondo di Strappare lungo i bordi: non lo è perché se un artista racconta il suo mondo (e Zerocalcare – nella vita Michele Rech – è del quartiere romano di Rebibbia) è giusto che lo faccia con la lingua che meglio conosce, che più gli somiglia e più appartiene ai suoi personaggi, quella che più rende autentica la verbalizzazione del suo pensiero. Perché nei dialetti c’è ricchezza, precisione, profondità e verità; c’è una cultura, e guai a considerarli ostacolo, limite.

Semmai sono le troppe parolacce inserite nella verbositá abbondante di Strappare lungo i bordi a dare un po’ fastidio: l’uso smodato di una in particolare, che se da una parte è vero che in un certo modo di esprimersi alcuni vocaboli sono presenti, dall’altra l’uso che se ne fa in questa graphic novel per il piccolo schermo appare, se non addirittura più esibito che necessario, più posticcio che contestuale, quantomeno distraente e spesso disturbante.

Un errore nel tentativo di scavare il contrasto tra ruvidità e delicatezza di cui si nutre questo racconto libero, non lineare, nel quale un viaggio in treno – sulla cui (importante) destinazione non facciamo spoiler – diventa per Zero l’occasione di procedere avanti e indietro nel tempo a pensare, a dare vita a ricordi e riflessioni, divertendosi a trovare le sue verità (anche aspre) tra i luoghi comuni del suo tempo e della sua cultura, con una certa irriverenza e dissacranza di fondo, le quali, sebbene facciano (anche queste) parte di uno spirito di ribellione di ogni periferia, del sentimento di disagio, smarrimento ed esclusione che facilmente questa produce, danno la sensazione di essere, al pari delle parolacce, qua e là eccessivamente marcate, programmatiche, persino di maniera.

Di sovrabbondare nel tentativo di aggiungere qualche risata lungo il cammino, ma di fatto incapaci di aggiungere reale valore a ciò che rende davvero interessante, a tratti bella – perché pregna di intelligenza, sensibilità e malinconica brillantezza – questa sorpresa italiana di quasi fine anno: l’impasto, contrasto, lotta, dialettica, tra disagio e tenerezza, tra implosione interiore e slanci affettivi, tra accidia ed emotività, tra senso di inadeguatezza e desiderio di riscatto, di pienezza, di bellezza, di crescita e liberazione.

Tra cinismo e sogni, tra degrado e poesia, tra solitudine e amore, tra comicità e tristezza, tra goffaggine e coraggio, tra lucidità e paranoia. Tanti fili di un unico cortocircuito che parla di paura e insieme di bisogno infinito di vivere, di un universo interiore corposo che si spande sui segni e sui colori di una tela parecchio ironica ma alla lunga anche un po’ drammatica, costruita sul ribollire di coscienza di un protagonista che narra, con una certa capacità di mettersi a nudo, i suoi pensieri e i sentimenti che lo pervadono, che lo bloccano, a volte anche dolorosamente.

Che altre volte lo spingono alla riflessione condivisa con gli amici: vite in cammino pure loro, a modo loro, più o meno buffi e barcollanti, ma ulteriore vitalità sotto la cenere, mare che si apre sotto un divano da bivacco, oltre quella punteggiatura sboccacciata che insieme a certe tematiche non proprio da bambini – si parla anche di suicidio – obbliga al VM14 questa serie che si rivolge ai giovani ma anche agli adulti e che, se condivisa in modo intelligente tra generazioni, magari analizzando alcuni passaggi del racconto, può essere occasione per un dibattito utile sulla vita, sul tempo che passa, sulla fragile, complessa, importante interiorità dei giovani e dei meno giovani.

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