La foto della giornata elettorale di domenica 14 novembre, nella quale 34 milioni di argentini erano chiamati a rinnovare la metà dei deputati e un terzo dei senatori, è quella di una vittoria dell’opposizione nei confronti del peronismo di matrice kirchnerista. Il peronismo esce ancora una volta sconfitto nella provincia di Buenos Aires e perde la maggioranza al Senato. Su un totale di 72 senatori, i peronisti passano da 41 a 35.

(AP Photo/Rodrigo Abd)
È vero che nella provincia di Buenos Aires la vittoria è di più stretta misura. La lista di opposizione Juntos por el cambio (Jpc) ottiene il 40,11%, 1,5 punti in meno se si paragona col risultato delle primarie realizzate in giugno, quando in questo tradizionale bastione peronista (la provincia omonima della capitale, che è però un distretto a parte), il peronista Frente de todos (Fdt) era stato distanziato di quattro punti da Jpc. L’opposizione vince poi nettamente sia nella capitale che in città come Cordoba e Santa Fe, e in altre due provincie. Se i dati si proiettano a livello nazionale, si mantiene una distanza di 9 punti: Jpc supera il 42%, mentre Fdt sfiora solo il 33%.
La posta in palio era alta. Il Fdt si giocava nientemeno che la maggioranza che possiede alla Camera, controllata con l’aiuto di alleati, che ieri è riuscita a conservare. Cocente invece il rovescio al Senato, presieduto dalla stessa Cristina Kirchner.
Le premesse non erano rosee, a partire dai risultati delle primarie di giugno, che sono obbligatorie e simultanee per tutti i partiti, dunque si è trattato del miglior sondaggio possibile delle intenzioni di voto. Tre mesi fa, il Fdt aveva perso anche nei propri tradizionali bastioni, leggasi i comuni della cintura più vicina alla capitale. Lo scossone aveva anche prodotto una crisi interna del Fdt: la principale alleata politica del presidente Alberto Fernández, Cristina Kirchner, che è anche vicepresidente della repubblica, con una lettera aperta aveva preteso, ed ottenuto, un rimpasto sostanzioso di governo. L’episodio mostrava tutta la debolezza del presidente, al quale indirettamente erano affibbiate le colpe, senza che la sua alleata facesse autocritica (e sarebbe stata una novità). Inghiottito il rospo, Fernández ha messo in marcia un pacchetto di interventi destinati a porre un freno alla crisi economica dalla quale il governo non riesce a uscire, con un’inflazione che ormai si aggira sul 50% annuo (5 volte quella del Brasile, 8 volte quella del Messico e del Cile) e una contrazione dell’economia del 10%. È stato incrementato il salario minimo, i sussidi ai settori più vulnerabili, favorito il credito e bloccati fino al prossimo mese di gennaio i prezzi di 1.400 prodotti di alto impatto sulla spesa. I risultati economici, quando toccano in positivo le tasche dell’elettorato, in genere ottengono consenso nel breve termine, anche se non affrontano di petto la situazione economica in generale.
Il dubbio è cosa succederà della maggioranza di governo. Perché se la sconfitta alle primarie, dove non erano in gioco scanni, ha provocato un rimpasto di governo, cosa accadrà ora di fronte a un nuovo risultato negativo? Le distanze, è vero, si sono accorciate nella provincia più popolata del Paese. Il peronismo ha mobilitato al completo il suo apparato e ci sono stati sindaci che hanno affittato numerosi autobus per portare le persone a votare (con una chiara infrazione alle norme), dimostrando che i settori meno abbienti, sui quali il peronismo esercita un certo clientelismo, restano un serbatoio importante di voti, ma a scapito di una trasparenza politica che è ancora e soltanto una dichiarazione di intenti. Ciò nonostante, anche altri settori, tra cui la destra che ha ottenuto lusinghieri risultati in alcune città come Buenos Aires, dove ha riscosso il 13% delle preferenze, sono cresciuti, confermando che la ripresa non è stata così decisa come ci si aspettava.

(AP Photo/Natacha Pisarenko)
Ma il risultato di queste elezioni, come quello delle precedenti, non è stato determinante per rimettere in moto l’economia, la cui ultima fase di crescita sostenuta, accompagnata da una migliore redistribuzione del reddito, nuovi di posti di lavoro e stabilità istituzionale, si è verificata nei primi anni dopo la crisi del 2001/2002. Tra il 2004 ed il 2011, soprattutto durante la gestione di Néstor Kirchner, non aveva ancora preso forma (ma lo stava facendo) un progetto con vocazione egemonica che, in quella fase, ottenne un certo appoggio trasversale per l’emergenza che andava affrontata, accompagnato da prezzi internazionali favorevoli e dall’espansione di Cina e India, locomotive del commercio mondiale. Solo dopo tale periodo, il peronismo di marca Kirchner ha mostrato il suo vero volto, restio al rispetto delle istituzioni, tendente all’accumulo di potere mediante la cooptazione di alleati e di neutralizzazione delle voci dissonanti.
Uno dei problemi principali, in Argentina, è la tendenza alla pendolarità della politica, senza poter stabilire alcuni punti essenziali da trasformare in politica di stato. Primo tra tutti, garantire una vera indipendenza della magistratura, in genere addomesticata dal governo di turno. I risultati di domenica scorsa proiettano uno scenario che tra due anni, alle presidenziali, potrebbe cambiare, ma solo per chi sarà al potere. Finora non sono apparse indicazioni se chi sarà presidente potrà e saprà traghettare il Paese verso altri, e migliori, lidi. Se la maggiore virtù di Jpc è quella di interrompere l’egemonia peronista, siamo però lontani dal risvegliare la speranza in un progetto economicamente e socialmente sostenibile. A meno che il peronismo non riesca a rigenerare se stesso, recuperando la sua forte vocazione per la giustizia sociale, abbandonando un clientelismo che di buono ha prodotto molto poco. È tutto da vedere.