Cos’ha in comune con la popolarissima La casa di carta, la serie coreana Squid game, che dal 17 settembre scorso, coi suoi 9 episodi non brevi, sta spopolando su Netflix? Che ci sono tute rosse, gente in maschera e anche un ritmo serrato con dialoghi dinamici. E poi ci sono i soldi, c’è del sangue esibito e c’è un successo enorme, di proporzioni planetarie. Però in Squid game, diretta dal regista Hwang Dong-hyuk, il contenitore della rapina, diciamo l’heist drama di La casa di carta, è sostituito da quello del macabro gioco di sopravvivenza, diciamo dal survival drama, e l’aspetto politico, la riflessione sul potere del denaro (e su una società fortemente oppressa e al tempo stesso feroce), pare leggermente più corposo, meno ambiguo, meno pretestuoso, meno di facciata, meno sfuggente rispetto all’uso che ne facevano (almeno nelle prime stagioni) i membri della banda di La casa di carta, dal professore ai suoi ragazzi coi nomi delle città: Tokyo, Berlino e via dicendo.
C’è, in Squid game, un’apprezzabile eleganza visiva − non insolita nel cinema coreano, tutt’altro che insolita − che fa da sfondo e ammanta i personaggi insieme bizzarri e sentimentalmente complessi, decisamente più drammatici che comici, alla lunga. A partire quello che tra la manciata dei protagonisti è il più centrale, il super personaggio: Seong Gi-hun, un uomo di 47 anni sommerso dai debiti e avvolto dal fallimento, un ludopatico braccato dagli strozzini che però non ha un cuore corrotto dalle sue disgrazie, ma anzi, dimostra, in varie occasioni, una tenera e toccante vivacità affettiva. E l’empatia. Fino alla fine, quando al denaro, che pure nella serie muove tutto, mette la relazione umana davanti alla vittoria. Del resto, nel gioco al massacro ideato da misteriosi ricchi, dove persone molto indebitate e fragili avevano partecipato per una costrizione (prima involontaria e più tardi volontaria) determinata dall’assenza di reali alternative, Seong Gi-hun si era avventurato per aiutare sua madre e per non perdere l’amata figlia di 10 anni. E quindi si era ritrovato, insieme ad altri, esattamente 455 giocatori oltre a lui, in una gara attraverso 6 giochi da bambini, popolari in Corea se non in tutto il mondo: tipo “Un, due, tre stella”, tra i vari. Apparentemente tranquilli, ma con forti venature da fiaba horror per via di un piccolo particolare: che l’eliminazione sarebbe coincisa − per ogni partecipante − con la morte, con l’uccisione.
Da qui un lungo percorso di conflitto e ribellione caratterizzato da inevitabile violenza e da una buona tensione narrativa che rende accattivante, adrenalinica in stile Hunger games, questa serie non proprio innocua e pudica visivamente, i cui sottotesti (la riflessione sull’idolo del denaro, sul suo forte potere attrattivo, sui pericoli delle forti disparità sociali, sul rapporto tra vita ed emozioni) sono più facilmente estrapolabili dagli adulti, mentre invece Squid Game − disponibile solo in lingua originale o inglese con sottotitoli in italiano, con divieto ai minori di 14 anni − sta trovando nei giovani grande consenso. Diciamo che allora, laddove non sia percorribile la visione condivisa, almeno il dialogo tra le parti, la lettura verbale del testo tra adulti e giovani, è azione consigliata.